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Helmut Newton, «Sie Kommen (Dressed), Paris», 1981 (particolare)

© Helmut Newton Foundation

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Helmut Newton, «Sie Kommen (Dressed), Paris», 1981 (particolare)

© Helmut Newton Foundation

Le tirature postume di fotografia: il caso Solomon vs Helmut Newton Foundation

Senza il controllo diretto dell’artista sul processo fotografico, ciò che arriva sul mercato è un duplicato privo di legittimità artistica e filologica. Il ruolo degli esperti è pertanto cruciale per evitare truffe

Rischa Paterlini

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Che valore ha oggi un archivio? E che cosa significa, davvero, custodire la memoria di un’opera fotografica? In un tempo in cui le fotografie circolano ovunque, vengono replicate, tagliate, riformattate e decontestualizzate, la nozione di origine rischia di sgretolarsi. La traccia autoriale si dissolve in una moltitudine di copie, mentre il confine tra opera originale e riproduzione si fa sempre più labile. È in questo scenario che acquista una nuova urgenza la questione della tutela dell’autenticità e del diritto d’autore, in particolare per le opere fotografiche. 

A confermarlo è una recente sentenza della Corte distrettuale della California, che lo scorso novembre ha condannato Norman Solomon a risarcire la Helmut Newton Foundation per oltre 1,5 milioni di dollari. Il motivo? Anni di distribuzione fraudolenta di stampe non autorizzate, presentate come «vintage» e corredate da certificati di autenticità «non autorizzati». Norman Solomon era già stato citato in giudizio nel 2011 da June Newton, artista e vedova del fotografo, in una causa che si era conclusa l’anno seguente con un accordo che imponeva a Solomon di interrompere la produzione e distribuzione di stampe non autorizzate, ma l’impegno è stato presto violato, alimentando un sistema di vendita poco chiaro. 

È Solomon stesso, in alcune e-mail agli atti, ad ammettere con sorprendente disinvoltura la gestione opaca del materiale in suo possesso, tra stampe, scansioni e ristampe successivamente messe in vendita. In un messaggio e-mail del 2016 scriveva: «Esistono due tipi di inventario: uno con stampe reali e uno con scansioni delle mie stampe poster. [...] Ho immagazzinato ogni cosa e, nei due anni successivi, ho restaurato quello che potevo. [...] Poi ho anche venduto una serie di stampe. Ovviamente ci sono delle “aree grigie”, ma tutto il mondo dell’arte e della fotografia è un’area grigia». Una frase che non suona come una difesa, ma come una normalizzazione dell’ambiguità: l’assenza di regole chiare viene evocata per giustificare pratiche discutibili. In un’altra comunicazione aggiunge: «Questo progetto mi ha richiesto moltissimo tempo a causa del lavoro di supervisione sulla selezione e sul restauro. Sto tornando in laboratorio per rivedere le stampe restaurate e le scansioni». 

Ma è proprio su questo punto (il significato da attribuire al termine «restauro» e la legittimità di produrre nuove stampe postume) che si concentra una delle questioni più controverse e spesso fraintese del mercato fotografico. Una fotografia ristampata dopo la morte dell’artista, senza istruzioni precise lasciate in vita, o una validazione da parte di un archivio o di una fondazione, non può essere considerata un’opera d’arte. È una distinzione tanto tecnica quanto culturale, e segna il confine essenziale dell’autenticità. A chiarirlo è anche Isabella Villafranca Soissons, esperta di conservazione di collezioni d’arte, che precisa: «Il restauro della fotografia segue le logiche del restauro dei dipinti: se per quelli antichi sono accettati dal mercato eventuali restauri, parimenti non avviene per quelli contemporanei. Il mercato richiede che le opere contemporanee e le immagini fotografiche siano in perfetto stato di conservazione. Le fotografie vintage possono essere sottoposte a interventi di manutenzione straordinaria (eliminazione delle deformazioni del supporto cartaceo, delaminazioni della carta, ecc.), ma non a restauri invasivi. Senza entrare nel campo giuridico, la creazione di nuove stampe realizzate da scansioni digitali di fotografie originali, non le assurge a opera d’arte. Le opere sono tali in quanto l’artista ne controlla l’intero processo di realizzazione; negli anni, i materiali e le metodologie realizzative sono completamente cambiati». 

È una distinzione fondamentale: senza il controllo diretto dell’artista sul processo, ciò che arriva sul mercato è un duplicato privo di legittimità artistica e filologica. Proprio in questo slittamento, tra apparenza e autenticità, si radica il problema, sfruttato con arguzia e disinvoltura da figure come Solomon attraverso canali online. Sulla persistenza di questi circuiti, Philippe Garner, vicepresidente della Helmut Newton Foundation, ha commentato via e-mail: «Molti artisti di successo sono diventati vittime di falsari che offrono copie fraudolente come se fossero opere autentiche. La facilità con cui i compratori si fidano delle “gallerie virtuali” ha invaso il mercato di falsi. È qualcosa di spiacevole per gli acquirenti e danneggia inevitabilmente sia il mercato che la reputazione degli artisti. [...] Chi acquista queste opere, non solo sostiene una frode, ma rischia anche di perdere il proprio denaro e di ritrovarsi con dei falsi ottenuti illegalmente». Il nodo del valore di mercato è forse l’aspetto più evidente tra gli effetti concreti della circolazione di copie non autorizzate. Basta dare uno sguardo agli esiti d’asta di una delle immagini più iconiche di Helmut Newton, «Elsa Peretti as a Bunny», per cogliere l’enorme discrepanza tra i valori in asta e le offerte su piattaforme come «Global Images» (società anch’essa citata in giudizio), in cui la fotografia viene proposta a poco più di duemila dollari, cifra che appare del tutto scollegata dalla realtà del mercato. 

Nel 2020, ad esempio, Christie’s ha venduto un esemplare di grande formato per 320mila euro; nello stesso anno, Phillips ha aggiudicato una stampa per oltre 70mila euro. A dicembre scorso, Cambi Casa d’Aste ha concluso un’ulteriore vendita per 15mila euro. Una forbice ampia, certo legata a formato, stato di conservazione  e provenienza, ma che solleva domande urgenti: quante versioni circolano della stessa immagine? Chi ha autorizzato la stampa? E, soprattutto, chi certifica cosa? Philippe Garner sintetizza così l’impegno dell’istituzione: «La Hnf fa ogni sforzo per monitorare il mercato. [...] Aiutiamo a identificare i falsi e a evitare che i collezionisti cadano vittima di Solomon o di altri. [...] È sempre meglio, anzi doveroso, fare una verifica accurata prima di includere un’opera in una vendita». È una questione di responsabilità. Non solo del mercato, ma anche di chi compra. Spesso basta una domanda in più, un controllo minimo, per evitare una truffa. In questo, il ruolo degli esperti è cruciale. Archivi e fondazioni come quella di Helmut Newton offrono un presidio fondamentale, ma è indispensabile rivolgersi a professionisti reali, non a gallerie virtuali prive di garanzie. Diciamolo chiaramente: un’opera autentica di Newton non vale 2mila dollari. Se in asta raggiunge i 320mila euro, l’affare lo sta facendo qualcun altro. E no, non sei tu.

Rischa Paterlini, 03 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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