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Rischa Paterlini
Leggi i suoi articoliFino al 10 gennaio 2026 è visitabile la nuova mostra che la Galleria Lia Rumma di Milano dedica a Thomas Ruff (1958), uno dei protagonisti della fotografia contemporanea. Non un’antologica né un omaggio celebrativo, ma un attraversamento di venticinque anni di ricerca: un viaggio dentro i meccanismi che generano ciò che chiamiamo immagine.
Il rapporto di Ruff con Lia Rumma è di lunga data: inizia nel 1991 con la sua prima personale nella sede di Napoli e accompagna lo sviluppo di un artista che, formatosi all’Accademia di Düsseldorf sotto la guida di Bernd e Hilla Becher, ha contribuito a ridefinire la fotografia insieme a Thomas Struth, Candida Höfer, Andreas Gursky e Axel Hütte. Un percorso che nasce quasi da un equivoco creativo, come Ruff stesso racconta in un’intervista con Daniel Birnbaum su «Artforum» nel 2003: «Provengo da una piccola città nel sud della Germania e non avevo davvero idea dell’arte contemporanea. Volevo essere un fotografo, e per me questo significava viaggiare per il mondo alla ricerca di grandi scatti di belle persone e bei paesaggi. Ingenuo com’ero, mi dissi che le fotografie più belle dovevano nascere all’Accademia, il luogo in cui si dipingono i bellissimi quadri. Così, senza essere affatto interessato all’arte in sé, presentai domanda per il corso di fotografia a Düsseldorf e, cosa sorprendente, fui accettato nella classe di Bernd Becher».
Se negli anni Ottanta Ruff diventa famoso per i suoi ritratti frontalissimi, quasi fototessere monumentali, dai primi anni Novanta la sua ricerca cambia direzione: l’immagine non è più un documento, ma un dispositivo; non rappresenta il mondo, ma ne analizza la costruzione, la manipola, la smonta. La mostra di Milano restituisce questa evoluzione distribuendosi sui tre piani della galleria senza seguire una cronologia lineare, ma la logica interna delle opere. Si parte al piano terra, dalle serie più recenti sulla luce, materia prima della fotografia. Negli «untitled#», Ruff fotografa una bobina d’argento in rotazione con lunghe esposizioni, ereditando le ricerche ottiche di Etienne Bertrand Weill, Peter Keetman e Heinrich Heidersberger degli anni Cinquanta e Sessanta: dalle vibrazioni minime emergono linee che sembrano piccole coreografie luminose sospese nel buio. Nelle «expériences lumineuses», fasci luminosi attraversano lenti, prismi e specchi prima di essere invertiti digitalmente: ciò che era chiaro diventa scuro, e le traiettorie si animano come presenze autonome che paiono danzare. In entrambe le serie non c’è un soggetto: c’è il comportamento della luce e, con esso, dell’immagine.
Procedendo al piano superiore della galleria, la fotografia non nasce più da un riferimento reale, ma da un processo matematico. Con «Zycles», Ruff utilizza software 3D per trasformare linee generate dal movimento di un punto su una ruota in rotazione in intrecci che sembrano percorrere lo spazio, a metà tra disegno minimale e architettura matematica. Con «d.o.pe» la ricerca si approfondisce ulteriormente. Ruff lavora su strutture visive che appartengono al mondo reale ma che l’occhio non può percepire, generando forme matematiche caratterizzate da ripetizioni potenzialmente infinite, identiche a ogni scala. Configurazioni che esistono anche in natura, dai coralli alle nuvole, ma che sfuggono allo sguardo umano e che l’artista ingrandisce fino a trasformarle in paesaggi visivi. La scelta di tradurle in grandi superfici tessili rinvia alla tradizione dell’arazzo, dove il mondo veniva letteralmente intessuto in immagine.
Il titolo rimanda al libro The Doors of Perception di Aldous Huxley, aggiungendo una chiave ulteriore: come Huxley descrive una percezione alterata che amplia il campo visivo, Ruff costruisce visioni che non appartengono né al fantastico né al quotidiano, ma a quella zona di confine dove la percezione tenta di dare un ordine a ciò che non conosce. In queste superfici psichedeliche, l’artista sembra suggerire che anche ciò che crediamo astratto può essere reale, solo collocato a una scala che il nostro sguardo non raggiunge. L’ultimo piano è dedicato alla memoria delle immagini. La serie «press++» nasce da fotografie pubblicate su giornali americani tra gli anni Venti e Settanta: Ruff scansiona fronte e retro delle stampe e li fonde in un’unica immagine. Timbrature, firme, didascalie e correzioni si sovrappongono al soggetto, rivelando il processo editoriale che solitamente rimane nascosto e ricordando quanto sia decisivo il lavoro di chi, dietro un’immagine, ne orienta lettura e significato. Nei «photograms» l’artista riprende la tradizione dei fotogrammi surrealisti, ma costruendo set virtuali invece di usare la carta sensibile: una tecnica storicamente affidata al caso diventa un processo rigoroso e controllato. «Nudes» del 2011, infine, chiude il percorso con un'immagine ingrandita fino alla dissolvenza, trasformata in superficie morbida e pittorica dove i corpi svaniscono e resta solo la materia visiva.
Ruff sfuma così i confini tra pornografia, fotografia del nudo e storia dell’arte, chiedendosi quanta informazione serva davvero per riconoscere, o immaginare, un corpo. La mostra nel suo insieme restituisce un artista che ha trasformato la fotografia in un campo di indagine sulla percezione contemporanea. Thomas Ruff insiste sulla stessa domanda: cosa stiamo davvero guardando quando guardiamo un’immagine?
Thomas Ruff, «press++32.07», 2016