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Giorgia Aprosio
Leggi i suoi articoliLe forme non scompaiono davvero. Cambiano ritmo, superficie, intenzione. Si trasformano, si mescolano. A volte si nascondono e poi ritornano.
È possibile pensarle come strutture che attraversano il tempo più che come stili da ereditare. Il ritratto, la natura morta, il paesaggio, il corpo: generi che a più riprese finiscono per sembrare appartenere a una stagione conclusa dell’arte e poi riaffiorano, mostrando la loro capacità di produrre ancora significato.
D’altronde, il movimento di ritorno accompagna da sempre la necessità umana di rappresentare il mondo. La preda che diventa natura morta, le forze animistiche della natura che si trasformano in paesaggio, il corpo che oscilla tra presenza fisica e costruzione simbolica: l’unica regola di questo gioco è che ciò che torna non è mai identico a ciò che è stato. Le forme cambiano aspetto e funzione, ma persistono come contenitori instabili, pronti a essere riabitati, svuotati, contraddetti.
È un processo che coincide con una consapevolezza che tendiamo a dare per scontata ma che è in realtà relativamente recente: l’idea che la storia dell’arte non proceda come una sequenza lineare di superamenti, ma come una serie di riprese, scarti e adattamenti. Oltre ad artisti e artefici, lo dobbiamo ad Aby Warburg, che ha letto questo movimento nelle Pathosformeln: dal braccio abbandonato di Meleagro nei sarcofagi romani, che riappare modificato nelle deposizioni cristiane fino alle forme manieriste di Pontormo e Rosso Fiorentino, e via dicendo.
A Roberto Longhi, che ha osservato come alcune soluzioni visive continuino a funzionare al di là dei contesti storici: il corpo che in Caravaggio emerge dal buio non va trattato come stile, ma come risposta concreta a una questione di visione. E poi a Georges Didi-Huberman, che ha insistito su una temporalità discontinua delle immagini, dalla pietà medievale alle immagini moderne del dolore, dove i gesti ricorrono come forme intermittenti, riemergendo in momenti di crisi o di necessità storica.
È su questo terreno che si colloca Old Vessels, New Spirits, la mostra in corso da MASSIMODECARLO a Milano fino al 14 gennaio 2026, che prosegue una linea curatoriale già esplorata dalla galleria, mettendo ciclicamente in relazione artisti contemporanei e maestri tra XIX e XX secolo. Le opere storiche agiscono in mostra come dispositivi percettivi. In Bonnard, la natura morta domestica diventa un campo instabile di visione, in cui il colore scardina la solidità dell’oggetto; in Degas, il ritratto è già uno spazio psicologico, dove la vibrazione della superficie restituisce interiorità. Goeneutte e Despiau condividono un’attenzione alla presenza -l’uno attraverso frammenti della vita parigina, l’altro attraverso il rigore della forma classica- mentre Gros e Wyeth mostrano come il ritratto possa oscillare tra rappresentazione pubblica e introspezione silenziosa. Nei paesaggi di Homer e Marquet, il confronto con la natura non è mai neutro: la vastità del mare o della costa è sempre misurata sul corpo e sullo sguardo umano.
Sul versante contemporaneo, Jean-Marie Appriou e Giulia Cenci lavorano sulla scultura come campo di metamorfosi, dove mito, botanica e detrito industriale si intrecciano in forme instabili, organismi sospesi tra crescita e disfacimento. Nei lavori di Piotr Uklański, Chloe Wise e Xue Ruozhe, ritratto e natura morta diventano strumenti per interrogare desiderio, identità e temporalità: Uklański rilegge l’eredità simbolista attraverso una superficie seducente e ambigua; Wise mette in tensione i codici della bellezza e della rappresentazione; Ruozhe trasforma la natura morta floreale in un rituale lento, scandito dal tempo e dalla ripetizione del gesto pittorico.
Nick Goss affronta il paesaggio come costruzione indiretta: non come veduta, ma come risultato di attraversamenti, spostamenti e sedimentazioni visive. Nei suoi dipinti lo spazio emerge per sovrapposizione, come se fosse ricostruito a posteriori, più vicino a un processo mentale che a una registrazione dal vero. Izzy Barber lavora invece per prossimità. I suoi quadri trattengono frammenti della quotidianità senza caricarli di narrazione, affidando alla rapidità del gesto pittorico la possibilità di fissare immagini che restano sospese, non risolte. John McAllister si muove su un piano diverso: il paesaggio perde ogni riferimento riconoscibile e diventa superficie, luce e colore, esperienza percettiva prima che luogo.
Nel suo insieme, Old Vessels, New Spirits suggerisce che la continuità dell’arte non risieda nella fedeltà a una tradizione, ma nella capacità delle immagini di tornare a dare forma a domande che, nei secoli, restano aperte. Il dialogo tra artisti contemporanei e maestri figurativi tra XIX e XX secolo non assume la forma di una genealogia né di una rassegna di citazioni colte, ma si fonda sulla naturalezza degli accostamenti e su un’attenzione condivisa verso il modo in cui certi generi continuano a funzionare come strutture attive dello sguardo. Il confronto tra presente e passato trova una corrispondenza concreta anche nello spazio di Casa Corbellini-Wassermann, costruita tra il 1934 e il 1936 come abitazione privata per le famiglie Corbellini e per l’imprenditore farmaceutico tedesco August von Wassermann, su progetto dell’architetto Piero Portaluppi, e oggi sede milanese di MASSIMODECARLO.
Veduta della mostra Old Vessels, New Spirits, MASSIMODECARLO, Milano. Foto: Roberto Marossi. Courtesy MASSIMODECARLO
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