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Cristina Valota
Leggi i suoi articoliAperta al pubblico (gratuitamente e su prenotazione) nel 2007, nella sede storica della società Max Mara a Reggio Emilia, la Collezione Maramotti è una delle realtà private italiane più attive nella promozione e produzione di arte contemporanea. Oltre all’esposizione permanente di una selezione di più di 200 opere tra quelle riunite in oltre quarant’anni già da Achille Maramotti (1927-2005), fondatore del gruppo industriale Max Mara, e che includono soprattutto dipinti, ma anche sculture e installazioni realizzate dal 1945 ad oggi, la Collezione Maramotti è caratterizzata anche da un’intensa attività espositiva con mostre di artisti contemporanei che spesso realizzano opere ad hoc, le quali poi entrano a far parte della collezione stessa. Lo stesso spirito infonde anche il biennale Max Mara Art Prize for Women (Mmap), finora assegnato a Margaret Salmon, Hannah Rickards, Andrea Büttner, Laure Prouvost, Corin Sworn ed Emma Hart: l’artista vincitrice, che trascorre sei mesi di residenza in Italia per realizzare il proprio progetto, è seguita e supportata dalla Collezione Maramotti, che espone e acquisisce il suo progetto artistico.
In occasione del primo decennio di attività, inaugurato dalla complessa installazione «Postnaturalia» di Krištof Kintera (Praga, 1973), visibile a Reggio Emilia dal 19 marzo al 30 luglio, abbiamo intervistato la direttrice Marina Dacci.
A dieci anni dall’apertura al pubblico della Collezione Maramotti, qual è il consuntivo?
Il bilancio per noi è molto soddisfacente. Qualitativamente la Collezione si è consolidata in Italia e all’estero come una realtà con una coerenza d’azione e di percorso attirando un pubblico che progressivamente si è trasformato da utenza nazionale a internazionale. Si è avvicinata anche una fascia di pubblico più giovane non necessariamente specialista, ma semplicemente appassionata d’arte. Il nostro modello organizzativo è diventato anche oggetto di ricerca per diversi scholar e dottorandi. Abbiamo collaborato con altre istituzioni non attraverso le tradizionali coproduzioni di mostre (la Collezione infatti commissiona e acquisisce le opere), ma con prestiti e con esportazioni di nostri progetti all’estero. Un aspetto importante nello sviluppo delle attività è stato quello di cercare di mantenere una costante attenzione alla centralità degli artisti durante la realizzazione dei progetti garantendo loro un adeguato e puntuale supporto professionale. In questi dieci anni sono stati quasi una sessantina i progetti, le mostre e gli eventi realizzati e 90 gli artisti, 22 dei quali italiani, che hanno esposto in progetti e mostre temporanee.
Per quanto riguarda gli artisti che avete proposto in questo decennio, si è trattato spesso di nomi fuori dagli schemi «scontati» del panorama artistico internazionale. Come li scegliete?
Sono artisti il cui lavoro è coerente con lo spirito della Collezione e la cui ricerca, che magari è in una fase di sviluppo artistico nuova, si incontra con l’opportunità che offriamo di dar vita a un progetto specifico, visibile e sfidante.
Può anticipare qualcosa circa la mostra di Krištof Kintera?
Kintera tenta di ricreare la natura nel suo atelier utilizzando materiali sintetici, diversi tipi di sostanze chimiche, componenti elettroniche e cavi di scarto per trasformarli nuovamente nella bellezza e nella spontaneità di una «Natura naturale». Una tensione onirica che intende restituire un volto positivo all’era tecnologica in cui viviamo? Un nuovo umanesimo post tecnologico in cui l’uomo resta una figura centrale? La mostra apre interrogativi, propone scenari in cui il visitatore può interrogarsi su un possibile futuro. Il pensiero di Kintera è concettualmente sofisticato, ma si intreccia con la sua «necessità di essere accessibile», di arrivare con semplicità alle persone. Nel progetto per la Collezione, Kintera ha saputo proporre alcuni elementi chiave del suo lavoro creando veri e propri ambienti in cui le persone possono immergersi ed entrare in osmosi con l’opera. Il suo intervento si è inoltre dilatato in altri spazi cittadini per la sua naturale vocazione a innestarsi e a dialogare con la cultura e la storia del luogo in cui interviene. Tutti questi elementi credo aiutino i visitatori ad avvicinare l’arte in modo meno «difensivo».
I cataloghi delle vostre mostre sono spesso dei veri «libri d’artista». Quale importanza date all’editoria d’arte?
I libri che accompagnano i nostri progetti non sono mai cataloghi tradizionali, ma costituiscono spesso un ulteriore lavoro ideato dall’artista per l’occasione: dalla scelta delle immagini e dei contributi fino a giungere addirittura alla creazione di un vero e proprio libro d’artista che resta a documentare un percorso progettuale assolutamente unico e originale realizzato per la Collezione. Così, come del resto avviene per le opere, il nostro progetto editoriale vede sempre l’artista al centro, al quale viene data una sorta di carta bianca restituita e condivisa con noi durante il processo di realizzazione. Mostra e pubblicazione viaggiano così in un coerente parallelismo.
Il nome Maramotti è collegato al Max Mara Art Prize for Women, che promuove e sostiene giovani artiste donne residenti nel Regno Unito, certamente uno degli epicentri della scena artistica internazionale. Perché non avete istituito un premio che sostenesse artiste italiane, considerato anche lo stretto legame del Gruppo Max Mara con le proprie radici?
Non esiste in arte un tema di nazionalità ma di qualità. A Londra vivono e lavorano artiste di tantissime nazionalità diverse. E infatti, tra l’altro, le vincitrici delle edizioni passate del Mmap sono di nazionalità canadese, americana, francese, tedesca, oltre che inglese, naturalmente. Il «sostegno» generico o nazionale non è lo scopo di questo premio. Quella è una finalità che forse altre istituzioni sono più adatte a sviluppare.
Negli ultimi anni si è sempre più rafforzato il legame tra l’arte contemporanea e la moda. Come lo spiega?
Potremmo dire che la professione di designer nella moda in sé fa sì che ci sia una costante relazione con la storia dell’arte per la necessità di reinventare continuamente i paradigmi visivi portatori di contemporaneità. Questo non è nuovo. Nuova è una certa promiscuità sul concetto di opera d’arte e di creatività. Alla famiglia Maramotti interessa mantenere i due campi totalmente distinti.
Quali progetti avete per il futuro?
L’idea è proseguire passo dopo passo, con coerenza rispetto agli obiettivi stabiliti fin dall’inizio. Per la scelta degli artisti si tratta sempre di «incontri», semi fertili che germinano dal percorso e dalle tensioni dell’artista in un dato momento e che si sposano all’interesse dei collezionisti per quella specifica tensione estetico-creativa. Quest’anno la programmazione della Collezione è paradigmatica perché contiene e riassume una serie di attività e progetti che hanno caratterizzato la nostra storia decennale: da commissioni a mostre tematizzate tese a valorizzare il patrimonio della Collezione mai esposto, dal Max Mara Art Prize al dialogo tra danza e arti visive con produzioni site specific per la Collezione.
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