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«Aphelile IV, Durban» (2020) di Zanele Muholi (particolare). Cortesia dell’artista, Yancey Richardson Gallery e Stevenson Gallery

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«Aphelile IV, Durban» (2020) di Zanele Muholi (particolare). Cortesia dell’artista, Yancey Richardson Gallery e Stevenson Gallery

La voce di Zanele Muholi per le comunità marginalizzate del Sudafrica

L’artista sudafrican* ha raggiunto la fama internazionale grazie a fotografie che trascendono la realtà delle persone ritratte per diventare un emblema universale di inclusione

Anna Aglietta

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Nel 2022 ha allestito sei mostre personali in giro per il mondo e lo scorso novembre ha ricevuto il premio Icp Spotlights 2022, riconoscimento nato per celebrare e supportare le donne creatrici di immagini che influenzano il mondo della fotografia, ora dedicato a una comunità più espansiva di genere: l’artista sudafrican* Zanele Muholi ha raggiunto la fama internazionale grazie a fotografie che trascendono la realtà delle persone ritratte per diventare un emblema universale di inclusione.

Muholi, che è una persona nera e non-binaria, si definisce un* «visual activist» (attivista visiv*) e da oltre vent’anni documenta la realtà delle persone di colore della comunità Lgbtqia+ sudafricana, difendendo i loro diritti attraverso varie iniziative sociali. L’esplorazione dell’intersezione tra l’identità delle persone di colore e queer è particolarmente pertinente in Sudafrica.

L’apartheid fu ufficialmente abolito nel 1994, ma il retaggio di quasi 50 anni di politiche di segregazione razziale continua a frenare il progresso sociale ed economico delle persone di colore. Malgrado forti protezioni legali, i membri della comunità Lgbtqia+ sono ancora vittime di discriminazioni, violenze e stereotipi negativi. È in questo contesto che opera Muholi, classe 1972, la cui missione è di «riscrivere la storia visiva dei neri queer e trans del Sudafrica, affinché il mondo conosca la nostra resistenza ed esistenza in un periodo all’apice dei reati di odio, qui come altrove».

Le sue opere diventano così un mezzo per riappropriarsi (e far riappropriare il pubblico) della propria identità, per celebrare l’unicità di ogni individuo e superare le esperienze traumatiche vissute a livello personale e collettivo. In ogni fotografia è evidente il desiderio di sfidare gli stereotipi oppressivi che concepiscono l’omosessualità come «unAfrican», non africana. Inoltre, in molte immagini è presente una critica del ruolo assegnato alle donne, e in particolare alle donne nere, relegate alla cura della casa, ispirandosi all’esperienza della madre dell’artista che, per mantenere i suoi figli, lavorò per tutta la vita come collaboratrice domestica di famiglia bianca.

La maggior parte del corpus di Muholi è costituito da ritratti i cui soggetti sono «partecipanti attivi» all’opera e collaborano con l’artista per definire ogni elemento dell’immagine. La serie più famosa è sicuramente «Faces and Phases», a cui Muholi lavora dal 2006 e che include più di 500 ritratti in bianco e nero. Per questo progetto Muholi ha fotografato più volte, nel corso degli anni, le stesse persone, raccontando così le varie fasi della loro vita. Ogni ritratto è scattato dalla stessa angolatura e posizione e, nella maggior parte dei casi, il soggetto punta lo sguardo verso l’obiettivo, ergendosi simbolicamente contro lo stigma associato alla sua identità.

Negli autoritratti della serie «Somnyama Ngonyama» invece, dominano i richiami alla storia sociale del Sudafrica, già presenti nel titolo, che (in isiZulu) signica «lunga vita alla leonessa nera». Privilegiando la sua lingua madre, Muholi critica i regimi colonialisti basati sull’apartheid che imponevano la lingua inglese. Ogni fotografia mette in scena un personaggio o un evento chiave della storia sudafricana, nel tentativo di educare e sensibilizzare il pubblico. I toni contrastanti delle immagini, attraverso il bianco e nero, fanno risaltare il colore della pelle, la «blackness» di Muholi.

Una forte componente politica è presente anche in «Queering Public Space», a cui l’artista lavora dal 2006: le fotografie, scattate all’esterno, immortalano i soggetti in luoghi pubblici legati alla storia del Paese, come ad esempio le spiagge, che in passato erano segregate, o la Corte costituzionale, emblema dell’evoluzione democratica. Al contrario, i progetti «Only Half the Picture» (2002-06), che ritrae vittime di reati d’odio, e «Being» (iniziato nel 2006), che si concentra su coppie omosessuali, mostrano i soggetti nella loro intimità, in luoghi in cui sono al riparo dallo sguardo altrui.

L’artista si distingue anche come attivista: nel 2002 ha cofondato il Forum for the Empowerment of Women, spazio di discussione per donne di colore omosessuali e, nel 2006, ha creato Inkanyiso («luce» in isiZulu), un’associazione non profit che supporta attivisti visivi queer. Ha vinto inoltre numerosi premi, fra cui il Carnegie International Prize (2013) e l’Icp Infinity Award for Documentary and Photojournalism (2016).

Dopo aver partecipato a documenta(2012) e alla Biennale di Venezia (2013 e 2019), ha esposto al Brooklyn Museum e la Tate Modern le ha dedicato una grande retrospettiva nel 2021. Solo nel 2022 sue personali sono state organizzate in Islanda, Danimarca, Spagna, Norvegia, Finlandia e negli Stati Uniti. Dall’1 febbraio al 21 maggio è la volta della Maison Européenne de la Photographie di Parigi, mentre in Italia «Zanele. A Visual Activist» a cura di Biba Giacchetti è in programma al Mudec Photo dal 22 marzo al 30 luglio. Un’occhiata alla pagina Instagram dell’artista (@muholizanele) basta a ricordarci che nel suo mondo «ogni umano è bello».

 

«Triple III» (2005). Per concessione dell’artista e Stevenson, Cape Town/Johannesburg e Yancey Richardson, New York © Zanele Muholi

«Bester V, Mayotte» (2015). Per concessione dell’artista e Stevenson, Cape Town/Johannesburg e Yancey Richardson, New York © Zanele Muholi 


«Miss D'vine II» (2007). Per concessione dell’artista e Stevenson, Cape Town/Johannesburg e Yancey Richardson, New York © Zanele Muholi  


Anna Aglietta, 08 febbraio 2023 | © Riproduzione riservata

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