Jef Verheyen in atelier. Foto: Lothar Wolleh. © Lothar Wolleh Estate

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Jef Verheyen in atelier. Foto: Lothar Wolleh. © Lothar Wolleh Estate

La finestra sull’infinito di Jef Verheyen

Al Kmska di Anversa una grande mostra personale di un «vero artista fiammingo» a quarant’anni dalla morte: le sue opere «dialogano» con Jean Fouquet, Van Eyck, Rubens, Tuymans...

«Diamond | Floating Space» (1984), di Jef Verheyen. Collezione Jef Verheyen Archief. © Sabam Belgium 2024, foto: Axel Vervoordt Gallery

Window on Infinity

Dalla gigantografia sull’imponente facciata Jef Verheyen osserva i visitatori che entrano nel Museo Reale di Belle Arti di Anversa (Kmska), che lo celebra a quarant’anni dalla morte, segnando il ritorno dell’artista fiammingo nella sua città natale con una grande mostra personale. Relativamente meno noto dei suoi compagni contemporanei, Jef Verheyen (1932-84) è stato uno dei protagonisti della ricerca artistica belga e internazionale dagli anni Sessanta, agendo da ponte tra tradizione e innovazione, tra la pittura e l’Arte concettuale, tra presente e futuro.

Il museo, che fino al 18 agosto ospita la mostra «Jef Verheyen. Window on Infinity», è l’istituzione che meglio rappresenta la cultura belga nei secoli: dopo la ristrutturazione avviata nel 2011 su progetto di Kaan Architects e terminata nel 2022, il nuovo Kmska è stato restituito al pubblico con il 40% di superficie in più, grazie allo spazio museale inserito al centro dell’edificio, per contenere le circa 8.400 opere, di cui 600 in esposizione. Le collezioni ospitano opere dal XIV al XX secolo, con un gran numero di maestri fiamminghi e capolavori, tra gli altri, di Antonello da Messina, Simone Martini, Jan van Eyck, Tiziano, Peter Paul Rubens, Amedeo Modigliani, René Magritte, Pierre Alechinsky, Auguste Rodin, Paul Delvaux e Marc Chagall, oltre alla più rilevante collezione al mondo di opere di James Ensor. L’idea del nuovo allestimento è quella di porre il visitatore oltre la «confort zone», stimolando l’occhio con varie sorprese, come un pezzo contemporaneo nelle sale degli Old Masters, un Basquiat accanto a un Rodin, o dopo Artemisia Gentileschi, in allestimenti tematici e non puramente cronologici, in un armonioso susseguirsi di grandi sale.

La mostra «Jef Verheyen. Window on Infinity» inizia idealmente nelle sale dedicate all’arte antica, dove si realizza un sogno, di grande impatto visivo, di Verheyen: al centro, uno dei pezzi più celebri del museo, la «Madonna circondata da Serafini e Cherubini» (1450 ca) di Jean Fouquet, ai lati, un dittico dell’artista, «Lux est Lex» (1974), in cui la superficie è divisa tra il rosso e il blu freddo: il dialogo tra i colori, simili a quelli dei cherubini, rafforza la visione e ricorda come la Madonna di Fouquet fosse parte del Dittico di Melun, oggi smembrato.

Nello stesso spazio il lavoro dell’artista dialoga con «La Madonna alla fontana» (1439) di Van Eyck, «La sacra Famiglia con pappagallo» (1614-33) di Rubens e «Der diagnostic Blick IV» di Luc Tuymans (1992). Il fervore creativo e la ricerca di Verheyen sono affrontati cronologicamente dai curatori Adriaan Gonnissen e Annelien De Troij attraverso le opere esposte: ceramiche, dipinti, sculture dell’artista e dei suoi amici, tra cui Lucio Fontana, Piero Manzoni, Günter Uecker, Gianni Dova e Yves Klein.

Verheyen è arrivato all’astrazione attraverso percorsi non ovvi: da giovane si appassiona alla ceramica ma si sente vicino alla ricerca concettuale, e il lavoro si evolve verso la pittura e il monocromo. Dipingendo in strati impalpabili, dirige lo sguardo dello spettatore oltre il colore, alla luce, all’infinito, spingendo la pittura al limite. Nel 1957, a Milano, Verheyen incontra Lucio Fontana e trova corrispondenza nell’esplorazione dell’aspetto spaziale dell’arte. Lega con Roberto Crippa e Piero Manzoni, e per gli amici milanesi è un «vero artista fiammingo». Dai primi anni Sessanta, Verheyen integra più colore e luce; si mette in contatto con il movimento Zero in Italia, Germania, Svizzera, Francia e Paesi Bassi e, nonostante le differenze di pratica artistica, stringe amicizia con Uecker.

Nel 1967 i due organizzano la mostra «Paesaggi fiamminghi», collocando la grande cornice di una finestra nel paesaggio, finestra tangibile sull’infinito, totale smaterializzazione dell’arte e uno degli interventi più concettuali della carriera di Verheyen. Nel frattempo, continua a cercare la luce che cambia in Brasile, Messico, Spagna, Italia; nel 1970 partecipa alla 35ma Biennale di Venezia, nel 1974 si trasferisce in Provenza; nel 1979 cura la mostra «Zero Internationaal Antwerpen» al Kmska, dimostrando la sua apertura mentale e il rigore nella ricerca. Tra il 1980 e il 1984 la base dei suoi dipinti diventano le forme geometriche primarie e le linee prospettiche. Ultimo modernista, muore nel 1984 durante un allenamento di judo.

La mostra illustra anche la vivacità delle istanze di ricerca, i rapporti con il mondo artistico dell’epoca attraverso fotografie, lettere e molte opere di altri artisti, a dimostrazione di quanto il lascito sia ancora valido e interessante per i molti legami con l’Italia, che conosceva bene. A corollario del percorso, Ann Veronica Janssens, Kimsooja, Pieter Vermeersch e il duo Carla Arocha-Stéphane Schraenen, che si ispirano a Verheyen con installazioni e dipinti.

Michela Moro, 09 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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