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Giorgia Aprosio
Leggi i suoi articoliUn Trionfo della morte di Enzo Cucchi si riflette nella scultura di Puppies Puppies: un altro scheletro, ma questa volta della Statua della Libertà. Sceso da cavallo se ne sta disteso, come una bella addormentata che per nulla al mondo rinuncerebbe alla sua corona sulla testa.
È la visione proposta dallo stand della galleria Balice Hertling, ben visibile dalla balconata del Grand Palais in occasione di Art Basel Paris 2025. Tra le immagini più immortalate ed evocative di questa edizione, l’allestimento riassume l’approccio multidisciplinare e anticonvenzionale del suo fondatore, Daniele Balice, che negli anni si è distinto per la capacità di sostenere pratiche artistiche fuori dalle righe, mettendo spesso in discussione il sistema e le sue regole.
Lo abbiamo incontrato per approfondire la sua visione e capire meglio il pensiero che guida il suo lavoro.
Prima di fondare Balice Hertling, il suo nome è comparso come giornalista su diverse testate. Cosa l’ha spinta a passare dalla scrittura critica alla gestione di una galleria?
Tutto iniziò mentre ero a Parigi, dove studiavo Arti Plastiche. In quegli anni lavoravo come cameriere per mantenermi e, non provenendo da una famiglia legata al mondo dell’arte, ogni piccolo passo era una scoperta. Fu una mia professoressa, Evelyne Jouanno - che tra l’altro è la moglie di Hou Hanrou, ex direttore del MAXXI - a consigliarmi di fare uno stage da Flash Art durante l’estate.
Ho sempre avuto una vera passione per la carta - i giornali, i libri, l’odore dell’inchiostro, il gesto di sfogliare - era qualcosa di naturale. Mi affascinava l’oggetto in sé, ancora prima dei contenuti. Così accettai lo stage e, dopo tre mesi, mi assunsero: mi occupavo della redazione internazionale, in particolare di moda e design.
In seguito iniziai a collaborare anche con L’Intervista, la versione italiana di The Interview. Fu in quel contesto che ebbi modo di conoscere molti artisti, parlare con loro, entrare nei loro mondi. Mi resi conto che quel tipo di scambio diretto mi interessava più della scrittura in sé. Quando poi mi trasferii a New York, lasciai Flash Art e cominciai a lavorare in galleria, facendo esperienza anche nel mercato secondario. Non avevo ancora un contatto quotidiano con gli artisti, ma era ciò che più desideravo: scoprire, sostenere, costruire percorsi insieme a loro.
Da allora mi è stato chiaro perché preferissi il lavoro in galleria alla scrittura: la curatela o il giornalismo sono incontri brevi, direi una one night stand; la galleria, invece, è una relazione che cresce nel tempo.
Crede che l’esperienza giornalistica abbia influenzato la sua pratica da gallerista?
Credo che mi abbia lasciato un approccio fortemente critico. Mi piace discutere con gli artisti, anche entrare in disaccordo, perché è da lì che nascono i dialoghi più interessanti. Forse è un metodo che deriva proprio da quegli anni: dal lavoro in redazione, dal dover interrogare, chiedere, mettere continuamente in discussione.
Flash Art era una rivista molto consapevole del mercato, pur mantenendo una forte componente critica. Ricordo che il mio primo incarico da stagista era rimettere in ordine l’archivio e restituire le diapositive agli artisti: un lavoro apparentemente meccanico, ma che mi permetteva di leggere testi e numeri storici, scoprendo come si parlava d’arte negli anni Settanta e Ottanta. Capii quanto il sistema potesse essere volatile. Le carriere, i movimenti, le mode: tutto cambia velocemente. Questo mi ha reso molto attento alla necessità di costruire basi solide, e non solo momenti di visibilità. Credo che il mestiere del gallerista stia anche in questo, dare continuità alle storie che la critica tende a frammentare.
Daniele Balice. Foto: Kayode Ojo
A proposito di Balice Hertling, com’è iniziata questa avventura?
Mi trovavo a New York nel periodo post–11 settembre, durante l’era Bush. Era un momento segnato da forte razzismo e nazionalismo, e non mi sentivo affatto a mio agio nella città. Decisi quindi di tornare in Europa. Avevo conosciuto Alexander Hertling, ma non avevamo ancora deciso se stabilirci a New York o a Parigi, dove lui già viveva. Io scelsi di tornare a Parigi. E da lì è cominciato tutto.
Lavorai per un periodo come direttore di galleria da Art Concept, poi incontrai Thomas Boutoux, Oscar Tuazon e François Piron. Thomas era un curatore indipendente e insegnante, Oscar un artista, François - che oggi lavora al Palais de Tokyo - era allora uno dei giovani curatori più interessanti di Parigi. Insieme avevano un piccolo spazio a Belleville, Castillo Corrales: due stanze di venticinque metri quadrati in tutto. Venendo da New York trovai quello spazio straordinario, sperimentale, vivo, libero. Proposi loro di aiutarli, magari vendendo qualcosa o organizzando meglio la parte commerciale, e decidemmo di condividere lo spazio. Alternavamo un mese le loro mostre, e un mese le nostre, sotto il nome Balice Hertling.
Non avevamo un piano o un capitale, solo tanto entusiasmo e curiosità, ma andò subito molto bene: già al secondo anno fummo invitati ad Art Basel Statements e al terzo ci ritrovammo a essere una galleria vera e propria, riconosciuta a tutti gli effetti.
Ci sono artisti o momenti che, secondo lei, hanno più di altri contribuito a definire l’identità della galleria?
Direi che fu importante il primo artista che portammo alla Biennale, Falke Pisano. Con lei oggi non lavoriamo più, ma credo sia stato per tutti un passaggio fondamentale. Subito dopo partecipò anche Oscar Tuazon, quasi in contemporanea. Fu un segnale forte: avevamo appena iniziato, e lo avevamo fatto quasi per caso, come le dicevo, senza un vero business plan alle spalle. Eppure ci ritrovammo improvvisamente al centro di un grosso movimento. Da lì in poi la galleria crebbe molto in fretta (forse anche troppo in fretta), ma credo che proprio quel momento, quella velocità, abbiano definito il suo carattere: la voglia di scoprire e sostenere artisti nuovi, di costruire percorsi dal basso e crescere insieme.
Quali sono i ricordi o le soddisfazioni che porta con sé con maggiore orgoglio?
Sicuramente i rapporti umani. Gli artisti che mi hanno dato più soddisfazione sono anche quelli che mi hanno sostenuto nei momenti più difficili. Mi vengono in mente Puppies Puppies, Simone Fattal, Enzo Cucchi, Isabelle Cornaro: persone che hanno continuato a credere in noi anche quando le cose erano complicate. Quella fiducia reciproca è la parte più bella di questo lavoro - molto più dei successi economici o della visibilità.
Aprire a Parigi, all’epoca, non era la scelta più scontata per una galleria giovane. Al di là dei motivi personali, strategicamente perché proprio quella città?
Perché amo Parigi. Amo la sua cultura, il cinema, il teatro, l’arte. E proprio per questo mi sono sempre chiesto: com’è possibile che un Paese con una tradizione culturale così forte non produca più artisti riconosciuti a livello internazionale? Com’è possibile che non sia il centro dell’ecosistema dell’arte contemporanea? Scelsi di lavorare dentro quella contraddizione. Tutti mi dicevano che ero pazzo: “Non c’è mercato, gli artisti francesi non vendono e quelli internazionali non vogliono venire in Francia”. Credo sia stato proprio quello, paradossalmente, a convincermi che fosse il posto giusto.
E poi, quando abbiamo aperto, eravamo davvero pochi della nostra generazione. C’era spazio, curiosità, voglia di fare. All’epoca tutto era molto più artigianale: i ritmi erano lenti, le gallerie piccole, e il quartiere di Belleville, dove avevamo lo spazio, era quasi deserto. Nel giro di pochi anni è esploso; oggi è pieno di gallerie e di giovani artisti, e credo che, in parte, anche noi abbiamo contribuito a quella trasformazione.
Balice Hertling, Art Basel 2025, Paris. Courtesy degli artisti e Balice Hertling. © Paul Hennebelle
Com’è cambiata Parigi da allora?
Oggi Parigi è molto più competitiva e affollata, ma è anche più viva. Ci sono finalmente molti artisti, sia francesi che internazionali. È tornata a essere una città che attrae, che accoglie, e questo è bellissimo da vedere.
Sembra che la città stia vivendo una nuova centralità internazionale, forse anche grazie all’arrivo di Art Basel Paris. Come legge questa rinascita del mercato e quali risvolti riscontra nell’ecosistema parigino?
Credo che Parigi stia vivendo un momento simile a quello che fece grande New York - ma credo anche che Parigi non sia New York. Sicuramente siamo in un periodo di grande attrazione e apertura, ma resto prudente: la Francia non ha la stessa potenza economica di Londra o degli Stati Uniti e con l’arrivo delle mega-gallerie l’ecosistema rischia di diventare fragile: non ci sono abbastanza collezionisti né abbastanza capitale per tutti. È una città che sta crescendo, sì, ma entro limiti economici e sociali ben precisi.
Negli ultimi mesi si è parlato molto delle chiusure di gallerie, soprattutto a New York e a Los Angeles. C’è chi attribuisce il fenomeno al contesto geopolitico e chi, invece, a un problema più strutturale. Secondo lei, la galleria tradizionale è ancora un modello sostenibile?
Il modello tradizionale di galleria è in crisi, ed è inutile girarci intorno. Gli affitti sono altissimi, le fiere costano sempre di più, e i ritmi sono diventati disumani. Dietro alle molte chiusure degli ultimi mesi credo ci sia anche una stanchezza accumulata negli anni di lavoro all’interno del sistema.
È raro trovare qualcuno disposto a parlarne apertamente. In molti preferiscono evitare per scongiurare presagi, quasi fosse una self-fulfilling prophecy…
Forse perché noi abbiamo aperto nel 2007, proprio nel mezzo di un’altra crisi economica. Tutti mi dicono che quella è stata diversa: più violenta, ma anche più breve. Oggi, invece, la crisi è lunga e strutturale. Ed è, fondamentalmente, generazionale; molti galleristi che chiudono si lamentano di un sistema che loro stessi e tutti noi abbiamo contribuito a costruire. Per alcuni di noi e colleghi più grandi questo è un momento anche di riflessione e presa di responsabilità.
Da questi momenti di crisi nascono anche nuove forme. Vedo giovani gallerie che scelgono di non fare fiere, di lavorare in modo più intimo e mirato, di ridurre i costi e mantenere un rapporto più diretto con gli artisti. Dall’altra parte, però, restiamo tutti parte di un sistema globalizzato, e in un sistema così esserci - anche solo simbolicamente - è ancora molto importante.
Veduta della mostra Trigger Warning, Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo), Galerie Balice Hertling, 2024. © Adrien Thibault.
A tal proposito, vale la pena ricordare progetti come Palai, rassegna organizzata dalla galleria che coinvolgeva altre gallerie, riaprendo siti storici e beni architettonici chiusi al pubblico. È stata un modo di ripensare la galleria in chiave nomade?
Sono cresciuto a Bari e ho sempre avuto un legame profondo con la Puglia. In particolare, sono innamorato di Lecce. Da ragazzo lavoravo come cameriere in Salento, e con quei soldi ho finanziato il mio primo viaggio a Parigi.
Con Palai volevo restituire qualcosa al luogo da cui provengo, creare una situazione che permettesse alle persone del posto di vedere opere straordinarie in spazi che normalmente non ospitano arte contemporanea, anzi, di solito restano chiusi. Quando pensai al progetto mi resi conto che il pubblico che avevo in mente ero io a sedici anni. Palai nasce da questo desiderio di apertura - verso le altre gallerie, verso altri artisti, ma anche verso chi non appartiene al mondo dell’arte contemporanea. È andato benissimo: soprattutto la seconda edizione è stata un grande successo ed è una soddisfazione enorme riuscire a fare qualcosa di concreto per valorizzare i beni culturali e l’architettura locale senza alcun finanziamento pubblico.
Ci tengo a sottolinearlo: Palai è stata un’iniziativa completamente autogestita. Abbiamo coinvolto gallerie, artisti, curatori, collezionisti, studenti. È stato bellissimo vedere i ragazzi del posto lavorare fianco a fianco con professionisti internazionali per poi, nel caso di alcuni di loro, spiccare il volo. Abbiamo portato Palai anche in Malesia, a Penang, una città la cui architettura coloniale è considerata patrimonio UNESCO.
Com’è successo?
Un collezionista locale, innamorato del progetto, ci ha invitati a replicarlo. È stato sorprendente scoprire quanto la città fosse simile a Lecce: due luoghi meravigliosi, con un patrimonio architettonico incredibile ma poco valorizzato, che nemmeno i locali conoscevano davvero. Ovviamente abbiamo mantenuto il nome della rassegna - Palai, in grico - anche in Malesia. Mi piacerebbe rifarlo, magari ripartendo proprio da Lecce. La prima edizione si è tenuta subito dopo il Covid, e credo che Palai sia stato un buon modo per ritrovarsi, riconnettersi. C’era un’atmosfera festosa, di rinascita, di cui avremmo bisogno anche oggi.
Pensa che il futuro possa partire da quelle città rimaste a lungo ai margini? Riesce a immaginare un sistema dell’arte veramente decentralizzato?
Sì, assolutamente. E forse non è neanche qualcosa di così visionario: basta guardare alla storia. Pensi a Lucio Amelio, a Napoli negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, a come riuscì a fare della città una meta obbligata per artisti di tutto il mondo - in un tempo in cui non esisteva neppure Instagram.
I costi sono più bassi, la qualità della vita è migliore, e si può comunque lavorare a livello internazionale. In questi luoghi si possono invitare artisti, curatori e collezionisti e creare veramente esperienze uniche. Conosco artisti e architetti che vivono in Puglia e collaborano benissimo con l’estero.
Le fiere continueranno a esistere, certo, ma gli spazi fisici non devono per forza passare da Parigi, Londra o New York. E con loro, nemmeno le persone dell’arte.
Il mondo è molto più grande di così.
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