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Flavia Foradini
Leggi i suoi articoliL’occasione per «Roy Lichtenstein. La mostra del centenario», all’Albertina dall’8 marzo al 14 luglio, è scaturita da un lato dal recente primo centenario della nascita dell’artista newyorkese (27 ottobre 1923-29 settembre 1997) e dall’altro dalla donazione all’Albertina di 120 opere da parte della Roy Lichtenstein Foundation: «Un fatto che sottolinea lo stretto rapporto dell’Albertina con Lichtenstein: grazie a quella generosa donazione, assieme al Whitney Museum di New York e al Nasher Sculpture Center di Dallas siamo fra le istituzioni internazionali che vantano le maggiori collezioni di questo fondamentale rappresentante della Pop art», dice Klaus Albrecht Schröder, direttore del museo viennese.
La retrospettiva, curata da Gunhild Bauer e alla cui realizzazione ha partecipato attivamente la Fondazione Lichtenstein, presenta 90 opere fra dipinti, grafica, sculture, e si avvale dell’apporto di prestiti da una trentina di istituzioni e collezionisti internazionali. Il percorso prende le mosse dai primi anni Sessanta, esponendo due icone della produzione di quel periodo, «Look Mickey» e «Popeye», che per la prima volta da decenni saranno visibili assieme, e si snoda poi attraverso tutto le fasi produttive: «Via via attraverso i dipinti che tematizzano gli stereotipi degli anni Sessanta, quindi la ripresa delle nature morte, ancora nell’alveo del boom economico, e i paesaggi e gli interni a partire dagli anni Settanta. Per la prima volta un focus è costituito dalle sculture, laddove la serie “Brushstroke” comprende sia dipinti sia sculture», prosegue Schröder.
«Assieme a Jackson Pollock e ad Andy Warhol, Lichtenstein è uno dei tre maggiori artisti americani del XX secolo», rimarca Bauer, indicando l’elemento essenziale dell’ironia di Lichtenstein nel demolire i confini tra cultura alta e cultura dei consumi: «Un suo determinante merito è stata l’appropriazione dell’aggressiva, pervasiva inondazione di immagini del boom economico. Distogliendo l’attenzione dall’Espressionismo astratto e rivolgendola alla realtà di seconda mano della società dei consumi del primo quinquennio degli anni Sessanta, Lichtenstein stilizzò quelle immagini a icone della cultura pop senza alcun intento moralizzatore, ma esplicitando l’ambivalenza di quell’epoca nei confronti del consumo».
«A me interessa l’energia di questa società dei consumi, asseriva Lichtenstein. In un modo o nell’altro gran parte della nostra comunicazione è determinata dalla pubblicità, cosicché tutto il nostro mondo pare dominato dal desiderio di vendere prodotti. Ed è questo che voglio raffigurare: mi interessa questa mancanza di sensibilità, di raffinatezza, di raziocinio, di risposte date senza riflettere, di una sorta di brutalità che per me è utile dal punto di vista estetico».

«Drowning Girl» (1963) di Roy Lichtenstein, New York, MoMA (particolare). Philip Johnson Fundation
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