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Larry Poons (Tokyo, 1937) nello studio, 2017

Foto: Jason Mandella.

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Larry Poons (Tokyo, 1937) nello studio, 2017

Foto: Jason Mandella.

«Il processo è semplicemente dipingere». Larry Poons: l'arte come gesto puro

Larry Poons, maestro dell’astrazione americana, ha rivoluzionato la pittura con i suoi iconici «Dots» e un gesto tanto libero quanto calibrato e istintivo

Nicoletta Biglietti

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Catturò l’attenzione della scena artistica con una serie di opere diventate iconiche: i cosiddetti «Dots». Tele ipnotiche, fatte di punti ed ellissi che vibravano su campi monocromatici. Illusioni ottiche di movimento e profondità, costruite con rigore matematico. Ma non era fredda meccanica: era rivoluzione. E Larry Poons (1937) aveva appena tracciato una nuova rotta nella storia della pittura astratta. Emerso dall’incendiaria scena artistica newyorkese dei primi anni Sessanta, Poons si impose come figura centrale nel panorama dell’avanguardia americana. Nato a Tokyo nel 1937, aveva studiato composizione musicale al New England Conservatory di Boston. Poi, nel 1959, l’epifania: una mostra di Barnett Newman a New York cambiò il corso della sua vita. «Non ero a mio agio con la musica seria», racconterà più tardi. «Ma con la pittura sapevo dove mi trovavo. Sapevo cosa stavo facendo».

I «Dots», oggi celebrati come capolavori di Op Art, non nascevano da un’idea programmatica, ma da una crisi. «Non ero soddisfatto», dirà poi. Poons faticava con il disegno, odiava cercare di creare forme perfette su carta millimetrata. Un amico gli suggerì di semplificare. E allora pensò: «Beh, se rendessi questo più semplice, dipingerei solo i punti». Così nacquero. E funzionò. Le opere si vendevano bene, piacevano ad altri artisti, e cadevano a pennello nella narrazione modernista di Clement Greenberg, teorico dell’«Astrazione post-pittorica», che vedeva nella pittura astratta l’approdo a superfici piatte, prive di profondità illusionistica. Nei primi anni, Poons porta avanti una doppia vita. Mentre sperimenta sulla tela, suona la chitarra nei Druds, gruppo proto-concettuale e noise-rock fondato da Warhol, con membri come Walter De Maria, LaMonte Young, Patty Mucha, testi di Jasper Johns e incursioni vocali dello stesso Warhol. L’arte e la musica, l’intuizione e l’istinto, convivevano in lui come due facce della stessa necessità espressiva. Poons infatti era un habitué del Max’s Kansas City, crocevia di artisti, poeti e musicisti. Ed era parte integrante di quel mondo, tanto da essere ritratto nella serigrafia di Andy Warhol «Portrait of the Artists» del 1967, accanto a leggende come Willem de Kooning e Jackson Pollock. Nel 1965 la sua inclusione nella mostra «The Responsive Eye» al MoMA lo consacra tra i protagonisti dell’Op Art, ma lui è inquieto e refrattario alle etichette. «Tutti sanno come fare un buon dipinto, e tutti fanno schifo», affermava con ironia disarmante. L’arte, per Poons, infatti, doveva essere rischio, non formula.


 

Larry Poons, New York 2/4/61, 1965. ©Fred W. McDarrah

Incarnava lo spirito radicale e irriverente della città, eppure, mentre il mercato lo celebrava e la critica oscillava tra entusiasmi e ritrosie, lui restava indifferente. Era altrove. Con il collega e amico Frank Stella, definì un approccio nuovo e radicale alla tela, dove il pensiero concettuale si intrecciava con un formalismo estremo. Ma già a metà degli anni Sessanta, Poons sente i limiti di quel metodo. L’arte non poteva essere soltanto sistema. Ma era molto, molto di più. I punti gli stavano stretti. «Non appena ho preso fiducia, ho smesso di farli», dirà. Il suo cambio di rotta fece infuriare Greenberg, mise in fuga i galleristi, spiazzò il pubblico. Ma per Poons non c’era alternativa: «Non mi piacevano più. Ero annoiato. Quindi ho smesso». Era il prezzo da pagare per rimanere fedele alla pittura. Quella vera. E quando gli chiedevano quale fosse il suo metodo, rispondeva con cruda sincerità: «Non ho mai capito bene cosa intendano le persone con ‘processo’. Nella pittura non ci sono passaggi definiti. Non c’è un processo giusto o sbagliato. C’è solo l’atto di alzarsi dal letto la mattina e avere voglia di dipingere. Perché il processo è semplicemente dipingere».

Poi negli anni Settanta avviene il salto. Abbandona la geometria per una pittura fisica, travolgente. Lancia il colore sulla tela, lo versa, lo lascia colare. Nasce il periodo dei «dipinti a lancio», in cui il supporto diventa campo di battaglia tra il gesto e la materia. Le superfici si ispessiscono, inglobano materiali come gommapiuma, carta da scrivere, corde. E la pittura si fa scultura, oggetto, presenza. Parallelamente, si distacca dalle logiche del mercato dell’arte. Corre in gare motociclistiche con la moglie Paula, cercando nella velocità un altro tipo di verità. Ma la pittura rimane il centro, il cuore pulsante. E con l’età, la riflessione si approfondisce. «La pittura è un processo autogenerante. Tutto ci influenza finché siamo vivi. L’ispirazione è una parola onnicomprensiva, da fumetto. Non sei più la stessa persona che eri a otto anni, quando imparavi l’aritmetica. È impossibile rimanere gli stessi, a meno di essere catatonici. Come disse Leonardo da Vinci: un’opera d’arte non è mai finita, solo abbandonata».

Negli anni Novanta, torna al pennello, ma non alla disciplina. Dipinge su rotoli enormi che poi seziona: ogni tela è un frammento di un flusso continuo. Il colore è ora denso, ora diluito, ma sempre protagonista. Il gesto resta fisico, essenziale. Come diceva Allen Ginsberg: «Primo pensiero, miglior pensiero. Primo colore, miglior colore». Nonostante l’allontanamento dai riflettori, la sua influenza resta viva. Lo testimonia il documentario di Nathaniel Kahn «The Price of Everything», presentato al Sundance nel 2018. Poons, ormai ottantenne, è ritratto nel suo studio nello Stato di New York, in un caos vivo e pulsante. Il contrasto con Jeff Koons, altro protagonista del film, è netto: da un lato l’imprenditore dell’arte, dall’altro il pittore. Poons non ha assistenti, non ha strategia. Ha solo la pittura. «Se definisci il successo come la capacità di pagare l’affitto, allora vuol dire che sei bravo a pagare l’affitto. Ma non dice nulla sulla qualità della tua arte».


 

Larry Poons, «Never Happened», 2019, acrilico su tela. Collection Buffalo AKG Art Museum

Larry Poons resta un artista indifferente al mercato, impermeabile alle tendenze. Ma la sua opposizione al sistema non è mai stata sterile. È una dichiarazione di libertà. «Non sono stato isolato dal mondo dell’arte. È il mondo dell’arte che si è isolato da me». Ogni quadro è un campo di possibilità. Un luogo in cui il pensiero si annulla nell’azione. Dove il gesto non è decorazione, ma necessità. Ha sempre rifiutato le etichette, le letture forzate, i simboli inventati. E non ha mai smesso di cercare. Nel confronto con Pollock o Stella, Poons rivendica la sua unicità: le sue opere respirano, hanno pause e variazioni. Non sono «semplici pattern», ma campi di possibilità. Sono un colpo diretto nel quale non c’è piano, ma solo azione.

La sua pittura è un paesaggio vivo, in continuo divenire. Un paesaggio che, come la natura, non ha bisogno di spiegazioni per essere vero. Perché guardare una sua tela significa entrare in contatto con qualcosa di primigenio, istintivo, inevitabile. Un paesaggio che non ha bisogno di spiegazioni. Un caos apparente che nasconde un ordine segreto. Un ritmo interiore che è della natura, più che della mente. Proprio come nei suoi primi «Dots», dove tutto cominciò. Perché alla fine, tutto torna a quei «Dots». Quelle prime tele ipnotiche, nate da regole, ma già ribelli. Già cariche di quell’energia indomabile che avrebbe guidato l’intera sua carriera. E così, alla fine del viaggio, si torna all’inizio. Al gesto iniziale, al punto. A quella grande pittura che, come la natura, non spiega. Si impone. E Larry Poons, su questo, è sempre stato un punto fermo. Proprio come i suoi primi, razionali ma già ribelli «Dots».


 

Nicoletta Biglietti, 24 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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