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La mostra «Kengiro Azuma. Infinito MU», visibile fino al 4 febbraio da Lorenzelli, era stata ideata come un omaggio allo scultore giapponese per i suoi 90 anni e per i 60 di permanenza a Milano. L’improvvisa scomparsa di Azuma, il 15 ottobre scorso, l’ha trasformata in un omaggio postumo: il primo dopo la sua morte, al quale, con Matteo Lorenzelli, hanno lavorato Jacqueline Ceresoli e il figlio dell’artista, Anri Ambrogio Azuma, architetto. A Milano l’artista era giunto da Tokyo nel 1956, trentenne, grazie a una borsa di studio del nostro Governo, per frequentare i corsi di Marino Marini all’Accademia di Brera. Fra il maestro e l’allievo nacque un sodalizio fortissimo, tanto che il giovane Azuma diventò l’assistente di Marini sino alla morte di questi, nel 1978. Ben presto prese però a sviluppare anche un autonomo percorso di ricerca di segno astratto, fortemente segnato dalla sua riflessione sulla ritrovata cultura Zen e sui principi del MU (vuoto) e dello YU (pieno): come dire, l’assenza, l’invisibile e il presente, il visibile, uniti in un processo di continua trasformazione.
La mostra ripercorre la sua vicenda dal 1956 al 2016, esibendo tra l’altro «La Luce», 1998, installazione di specchi e metallo. Per quest’occasione è stata realizzata una tiratura di 60 piccole «Gocce» di bronzo, ognuna delle quali porta inciso un anno, dal 1956 al 2016, mentre nella sua forma perfetta trasmette l’obiettivo dell’artista: «Rappresentare la parte invisibile dell’uomo, che però non ha una forma definita. I sentimenti non hanno una forma precisa, sono cose astratte. E io ho abbandonato la rappresentazione dell’uomo, dedicandomi a quella dell’anima».
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