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Lauren Quin.

Credits: Indah Datau. Courtesy Pace Gallery.

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Lauren Quin.

Credits: Indah Datau. Courtesy Pace Gallery.

Il brivido e il «respiro» del colore nella pittura straziante di Lauren Quin

Tra tubi, incisioni e stratificazioni di colore, Lauren Quin trasforma ogni quadro in un viaggio ipnotico tra dettaglio e totalità.

Nicoletta Biglietti

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«Nessuno mi ha mai insegnato a dipingere», sostiene Lauren Quin (Los Angeles, 1992), eppure oggi domina la scena artistica contemporanea. Le sue tele non si guardano, si attraversano. I suoi colori non si sovrappongono, si mischiano, fluidi e «rigidi» al contempo. Perché è un processo fatto di bisturi, acrilici, tunnel e vetri, quello che Quin utilizza. Ma il risultato è folgorante, come anche il mercato conferma. Nata ad Atlanta nel 1992, Quin si forma in alcune delle scuole più prestigiose: la School of the Art Institute of Chicago, la Skowhegan School of Painting and Sculpture nel Maine e, infine, la Yale School of Art, dove ottiene il Master in Fine Arts nel 2019. Eppure sostiene che nessuno le abbia mai insegnato davvero a dipingere. Niente corsi introduttivi, mai. La sua vera scuola è stata la cantina di casa, accanto al padre, che, senza formazione artistica, le mostrò come tenere in mano un pennello.

Dopo la laurea a Chicago, Quin si trasferisce a New York, lavora in galleria e comincia a farsi notare. Poi arriva Skowhegan, la residenza nel Maine. Lì scopre il buio assoluto: camminare di notte tra i boschi, senza torcia, per non attirare gli insetti. Una condizione estrema. Solo il corpo a orientarla. Solo la memoria del sentiero. Un’esperienza che torna nei suoi quadri: profondità che si aprono, cadute verso il centro e impressione di attraversare un tunnel. «So che un dipinto è finito quando tutto mi vola addosso e io non posso fare altro che attraversarlo», racconta.

La svolta decisiva però arriva a Yale. Durante gli studi, Quin si imbatte in un’opera di Fernand Léger (Francia, 1881; Francia, 1955) conservata nella collezione dell’università. Ordine contro caos. Una struttura che la affascina e che decide di adottare per poi «spezzarla». Da qui nascono i tubi, divenuti cifra stilistica del suo lavoro: regola e deviazione insieme; strumento che sblocca strade nuove. «Léger e altri artisti in quell’ambito avevano un modo di realizzare un segno unificato che manteneva una certa coerenza di peso», ha detto Quin. «Da studente ho preso quel segno e ho iniziato a giocarci. (...) Poi certo, il surrealismo mi ha aperto le porte all’astrazione e mi ha fatto capire che tutto ciò che ho intorno è utile. Mi ha aiutato a fare libere associazioni, di cui avevo davvero bisogno». È da qui che i tubi cominciano a trasformarsi, da semplici segni direzionali a motori visivi del suo linguaggio.

Nelle opere più recenti i tubi dominano, ancora. Si parte da piccoli cilindri incrociati. Poi forme più grandi: tunnel, arti, intestini. Sopra, disegni ripetuti all’infinito. Mani che si trasformano, diventano altro. Quando la superficie è pronta, Quin incide: usa bisturi, strumenti medici, cucchiaini da laboratorio; poi capovolge la tela, la preme su un vetro inchiostrato. Un gesto vicino alla monotipia – tecnica artistica che produce una singola, irripetibile stampa partendo da una superficie liscia (la matrice), su cui l’artista disegna o dipinge l’immagine che viene poi trasferita su un foglio di carta tramite pressione. Processo caotico, complesso, che genera tracce multiple, intricate. Un moiré pittorico – un effetto ottico simile a un miraggio creato dall’interferenza di pattern sovrapposti. Da qui si capisce che ogni dipinto per Quin non è mai soltanto una superficie, ma un’indagine. Segni e colori come strati geologici. Intuizione e riflessione si inseguono. Le sue opere sono sedimenti, archeologie. Simboli che mutano, e un linguaggio che cambia, di continuo. 

Lauren Quin, «Apricity», 2024, olio su tela, 243.8 x 243.8 cm. © Lauren Quin. Credits: Marten Elder. Courtesy Pace Gallery.

Questa logica di stratificazione prende forma nel metodo: un processo di accumulo e sottrazione. Quin costruisce la superficie aggiungendo strati successivi di pittura, poi li interrompe con incisioni che creano una rete fitta, quasi scultorea. Le linee non sono solo segni: aprono varchi dentro la pittura stessa. Usa gesti ricorrenti e tecniche personali — incisione, monotipia, disegni impressi direttamente sulla tela — che si combinano come un vocabolario visivo. Da questo lessico nasce un mondo in movimento continuo, pulsante. «Quando guardo i miei lavori precedenti, mi vedo brancolare nel buio alla ricerca di ciò che ho ora. Ho la sensazione che sia un dialogo continuo, perché la pittura è così straziante. Non ti dà mai più la stessa impressione. A volte cado in trappola nel tentativo di ricreare un dipinto. Quello che ho capito è che posso solo ricreare la sensazione di amare un dipinto, il brivido che ne deriva». 
Le forme nelle sue opere riaffiorano, si dissolvono, riemergono. Le tele restano in sospeso, mai definitive. Come un flusso continuo, tra astrazione e oggettività. I segni-tubi diventano tunnel, solchi, bocche. Sempre il corpo come riferimento, come confine tra interno ed esterno.

Una tensione tra micro e macro, tra dettaglio e totalità, che dà alle opere di Quin la loro forza immersiva. Le tele sono spesso di grandi formati, monumentali, e riempiono l’intero campo visivo. Avvicinandosi, lo spettatore è avvolto dalla pittura stessa: il quadro non è più un oggetto da osservare, ma un ambiente da attraversare. Quin racconta di lavorare così vicino da arrivare a «respirare il colore». La sua debole vista la obbliga a concentrarsi sui dettagli minimi — le pieghe della pelle, la polvere di un cuscino. Da questa attenzione nasce l’ossessione per l’infinitamente piccolo, che, ingrandito, diventa un universo pittorico. Un modo per spingere il quadro oltre se stesso, per scriverne poi un altro al suo interno.

Lauren Quin, «Ulter Bearing», 2019. © Lauren Quin. Courtesy Sotheby's

Oggi Quin è a Los Angeles, dove ha trovato il suo lessico e il suo pubblico. È entrata ufficialmente nella scuderia di Pace Gallery, una delle più influenti al mondo. E il calendario è fissato: prima Frieze Seoul, a settembre, poi la personale a Los Angeles, durante Frieze LA, nel 2026. L’annuncio arriva in un momento teso per la città, a poche settimane dalla chiusura di BLUM, galleria che aveva sostenuto Quin. Ma la scena si è già riorganizzata e con Pace Quin accelera. La galleria porta in dote relazioni istituzionali e una rete globale. Un trampolino per un’artista già in corsa. Le aste lo confermano: «Airsickness» aveva già raggiunto 461.700 sterline (587.484 dollari) da Phillips London nel 2022, ma a New York e Hong Kong le vendite superano regolarmente i 200.000 dollari. Numeri importanti per un’artista poco più che trentenne. 

Emblematica la parabola di «Ulter Bearing», realizzato nel 2019, anno del suo MFA a Yale, è passato tre volte in asta. Nel 2022 Sotheby’s Hong Kong lo stimò tra 84.000 e 109.000 dollari. Invenduto. Tornò l’anno dopo, stima più bassa: 51.000–77.000. Venduto a 178.000 dollari. Lo stesso anno, un’altra opera stabilì il record: 587.452 dollari. Ma il percorso di Quin riflette anche una tendenza più ampia. Quella dei giovani artisti che intrecciano sperimentazione, memoria storica e linguaggi dell’immagine contemporanea. «Esemplifica una generazione che non teme i limiti, né formali né fisici», commentano da Los Angeles. Musei e mercato lo confermano. E Quin lo dice senza esitazione: «Voglio fare questo quando avrò 80 anni, questo è il mio piano».
 

Nicoletta Biglietti, 01 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

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