Image
Image

I subprime dell’arte contemporanea

«Il Borghese incoraggia le belle arti (...). La sua intima aspirazione è mettere il Bello a terra, al di sotto della peggiore immondizia, e in queste basse opere nessuno puo' superare i porci artisti» (Léon Bloy)

Nuovo programma di manifestazioni d’arte contemporanea al Castello di Versailles; acquisto da parte di un’impresa della Moda del Museo delle arti e tradizioni popolari fondato da un uomo di genio, Georges-Henry Rivière; chiusura apparentemente definitiva delle ammirevoli collezioni dei musei scientifici di Parigi, Museo Orfila, Musée de l’Assistance Publique, Museo Dupuytren, museo del Val de Grâce... Ovunque il sapere regredisce, e trionfa il gusto della futilità.
 
Lo sfacelo dell’Educazione nazionale si accompagna in Francia a una disfatta della cultura. Quali opere meritano la qualifica di «cliché» più di quelle dette «d’avanguardia»? Il principio che le fonda non è forse quello di ripetere sempre e ovunque lo stesso, identico motivo,  lo stesso gesto, lo stesso tono, lo stesso graffito, dal cane di Jeff Koons all’uccello fatto a maglia di Annette Messager, dall’animale sezionato in due di Damien Hirst al monocromo di Reinhardt, dal tocco convulsivo di Twombly alle strisce di Buren... Stereotipi moderni,  ricalcati sul modello, come un tempo si spolverava il disegno fittamente perforato che si voleva riprodurre (in francese la tecnica dello spolvero è chiamata «poncif», termine che per estensione indica anche un disegno banale, riproducibile, e metaforicamente un luogo comune, una banalità).


Non a caso, il procedimento del ricalco è simile a quello che permette di ripetere all’infinito la stampa di un biglietto di banca, o il battere moneta. La conformità meccanica a un originale ne permetterà lo scambio e ne garantirà il corso, all’interno di un’area geografica determinata, sottomessa alle stesse regole estetiche o bancarie. All'opposto dell’opera d’arte di un tempo, il cui valore dipendeva dalla singolarità (costituiva infatti,  in un modo o nell’altro, per la fattura, per il soggetto, per la composizione, un unicum), il cliché, il «poncif» di cui l’opera d’avanguardia è la perfetta concretizzazione, deve necessariamente accumularsi come il danaro o i titoli bancari, senza distinzione tra l'originale e la copia, senza valore salvo quello che le assegna il mercato. I cliché dell’avanguardia ricordano i cosiddetti  «assegnati» della tempo della rivoluzione francese; costituiscono un titolo, una moneta fiduciaria, in altre parole la testimonianza di una fiducia, un credito, tutti termini venuti dal linguaggio della religione e della fede; ma più pericolosi che non la fiducia un tempo impegnata e messa in gioco nella scommessa di Pascal...


Ma se questi titoli hanno qualche valore, se meritano qualche credito, è perchè sono garantiti da una riserva aurea. Nel caso degli assegnati, la riserva aurea era costituita dai beni della Chiesa confiscati dallo Stato francese, che quest'ultimo si affrettò a vendere quando fu in fallimento; ed è noto che i nuovi assegnati crollarono. Oggi i titoli delle opere d’avanguardia sono garantiti da un'altra riserva aurea, quella che costituiscono le collezioni storiche delle istituzioni statali, musei o monumenti, giardini di Versailles per esempio, che accettano o addirittura sollecitano le esposizioni di quell'avanguardia; e non  perché i loro responsabili siano convinti che un Jeff Koons, un Damien Hirst o un Anish Kapoor siano in fin dei conti gli eredi naturali dei Picasso, dei Bonnard o dei Rodin di cui sono i custodi, ma perchè sperano da tali mostre ricavare il danaro che manca per continuare a mantenere le collezioni aperte al pubblico. Fino al momento, e ci stiamo arrivando, in cui saranno obbligati, come lo Stato francese fece con i Beni della Chiesa, a liquidare i loro tesori per salvarsi dal fallimento.


L'opera d'avanguardia non è quindi altro che un valore fittizio la cui manipolazione ricorda in modo sorprendente la manipolazione delle subprimes, garantite da beni inesistenti. Non stupisce che  i «mecenati» e i collezionisti dell’arte «contemporanea» siano uomini del mondo dell'industria e della finanza. Le opere che si ammucchiano nelle casseforti o nell'oscurità dei porti franchi in Svizzera o in Malesia, più sorvegliate che in una banca, devono necessariamente essere non solo identiche ma anche intercambiabili, fatte di materiali replicabili, e dalla composizione sempre uguale garantita da un titolo, come un lingotto è munito di un punzone. L'esposizione pubblica di tali oggetti  non rappresenta quindi altro che la cartolarizzazione di un valore che non è mai esistito,  e la cui natura non è differente da quella di altri titoli che, nelle riserve, testimoniano fraudolosamente delle fortune.

Jean Clair, 10 maggio 2017 | © Riproduzione riservata

Articoli precedenti

Dall’ultimo libro di Jean Clair, uscito da poche settimane in Francia e dedicato agli amici, pubblichiamo in anteprima il ritratto di Gianadda, scomparso lo scorso 3 dicembre

Zeri aveva suggerito che «fare l’arte moderna è molto più difficile che fare l’arte antica», ma per il celebre saggista e accademico di Francia «i falsi sono molto più numerosi nell’arte moderna che nell’arte antica». Feticci creati dal mercato

I subprime dell’arte contemporanea | Jean Clair

I subprime dell’arte contemporanea | Jean Clair