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Davide Landoni
Leggi i suoi articoliThaddaeus Ropac ha aperto un nuovo spazio a Milano, una decisione che sembra destinata a cambiare il volto culturale della città. La sede è a Palazzo Belgioioso, icona neoclassica nel quadrilatero della moda. Per la sua mostra inaugurale, aperta fino al 21 novembre, ha ideato un dialogo tra Georg Baselitz (Kamenz, 1938) e Lucio Fontana: uno dei suoi autori di punta che stringe la mano alla figura di riferimento del secondo ’900 italiano. Abbiamo intervistato l’artista tedesco, che dal 1965, per una parte dell’anno, vive in Italia, prima a Firenze, poi a Imperia, dove ancora oggi ha un grande studio.
Che cosa pensa dell’arrivo di Thaddaeus Ropac in Italia?
Sono lieto che la galleria Thaddaeus Ropac stia compiendo uno sforzo serio per affermarsi in Italia, perché qui, negli ultimi anni, il mercato dell’arte non è stato così significativo, almeno non come lo era in passato. Gli anni passati, almeno fino all’epoca di Kounellis, erano sicuramente più interessanti.
Ha selezionato le sue opere esposte pensando a Fontana?
Le opere che espongo a Milano sono tutte legate a Fontana; mi occupo del suo lavoro dal 1965. Tutte contengono un riferimento o un’allusione ai dipinti di Fontana, almeno nei titoli.
In che modo le sue opere dialogano con quelle di Fontana?
Non c’è alcuna correlazione visiva evidente. La questione principale è la messa in discussione della pittura stessa. Attraverso la sua ricerca sperimentale, Fontana ha trovato una soluzione con le sue tele squarciate. Dopo aver studiato a lungo questi tagli, sono giunto alla conclusione che essi riguardano un’aspettativa che si ritrova in tutta la storia dell’arte. Inoltre, Fontana ha creato sculture che non erano esattamente decorative, ma molto suggestive e completamente fuori dal tempo in cui sono state create. Per me Fontana è stato colui che, senza diventare frivolo, ha trovato la soluzione migliore per continuare a lavorare pittoricamente, a differenza di molti altri.
C’è un’affinità nei titoli, per esempio. Fontana scriveva frasi o pensieri sul retro della tela quando non li utilizzava nei titoli. Hanno un certo carattere narrativo, come i suoi. Che valore hanno per lei i titoli delle opere?
Ho iniziato a prestare attenzione ai titoli delle opere di Fontana molto tardi, e quando finalmente l’ho fatto, sono rimasto sorpreso, perché c’era il titolo generale «Spazio» e il titolo letterario o filosofico «Attesa», seguito dalla citazione personale. Ho pensato che fosse meraviglioso, anche perché ho adottato un approccio simile nei titoli delle mie opere.
Oltre a Fontana, sente una particolare affinità con altri artisti?
Sì, ho partecipato a mostre collettive, ad esempio a Torino alla Galleria Stein, con gli artisti dell’Arte Povera. Poi ho fatto altre mostre con Emilio Vedova, e ho avuto un forte legame con i dipinti di Ottone Rosai. Incontravo spesso Kounellis, così come Vedova. Non bisogna sempre vedere tutto come opposto, ma piuttosto in relazione, e da tali conoscenze nascono nuove intuizioni.
Crede che sia necessario rompere con le convenzioni per fare arte?
Sì, in definitiva è proprio questo il punto, le convenzioni sono limitanti. Alla fine, tramite queste convenzioni, si prova a ricercare un senso di armonia e comprensibilità. Fin dall’inizio, anche prima di capovolgere i miei soggetti, ho lavorato contro le convenzioni con grande successo personale e, naturalmente, ho incontrato le prevedibili difficoltà, compresa la comparizione davanti a un tribunale civile. Inutile dire che il legame tra convenzioni e realismo era incredibilmente stupido.
Qual è il rapporto tra arte e realtà? Si tratta di imitazione, interpretazione, ispirazione?
Nel nostro passato, sia nella storia tedesca sia durante il regime nazista, ci sono stati numerosi tentativi di cogliere la realtà. Contrariamente alla realtà filosofica, l’obiettivo storico finale era quello di includere tutti, il che ovviamente contraddice completamente l’arte. L’imitazione è negativa, l’interpretazione è negativa, l’ispirazione è inaffidabile, ma la si usa comunque.
L’arte può avere una funzione sociale? È necessario che ne abbia una?
Mai: l’arte non dovrebbe mai essere vincolata socialmente, politicamente o religiosamente. Tutti questi aspetti esistono nell’arte, ma ciascuno di questi tipi di arte ha commesso un suicidio artistico prematuro.
Idealmente, la forma può esistere senza contenuto? Se sì, che valore ha?
Esistono vari tipi di valore: in primo luogo, c’è il valore di mercato, poi c’è il valore legato alla rarità, quello storico, morale e così via. Anche i dipinti hanno o hanno spesso avuto un valore letterario, narrativo. Penso che sia del tutto possibile, e la storia dimostra che funziona. Ma trovo ancora più interessante quando si fanno cose dirompenti perché non sono mai esistite prima.
Quale valore attribuisce all’arte oggi?
È una domanda strana, perché finché le persone dipingono quadri, devono esserci ragioni valide ed esistenzialmente importanti per farlo.

Una veduta della mostra «L’aurora viene» da Thaddaeus Ropac a Milano. Photo: Roberto Marossi. Courtesy Thaddaeus Ropac gallery, London · Paris · Salzburg · Milan · Seoul