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Nnena Kalu con delle sue opere

Courtesy of the artist and Action Space

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Nnena Kalu con delle sue opere

Courtesy of the artist and Action Space

Fili, spirali, relazioni. L’arte di Nnena Kalu, vincitrice del Turner Prize 2025

La sua pratica presenta due filoni distinti ma dialettici: le installazioni scultoree multimediali e i disegni a vortice

Ci sono artisti che costruiscono un linguaggio. Altri che lo trovano già dentro di sé e devono solo liberarlo. Nnena Kalu appartiene alla seconda specie. Le sue sculture sembrano nascere da un impulso antico, da un ritmo che attraversa il corpo prima ancora di incontrare la materia. Chi l’ha vista lavorare parla sempre di un movimento, di un’onda che avvolge ogni gesto. Un flusso che appare naturale quanto il respiro, ripetitivo come il mare che torna sempre sulla stessa riva.

Nata a Glasgow nel 1966 da genitori nigeriani e cresciuta a Wandsworth, Kalu ha iniziato a fare arte negli anni Ottanta. Da allora la sua pratica è evoluta seguendo un’unica traiettoria, coerente e imprevedibile insieme, come un percorso che si svela un passo alla volta. Dal 1999 lavora con ActionSpace, l’organizzazione londinese che sostiene artisti con disabilità di apprendimento. La relazione tra lei e il suo studio è cresciuta nel tempo, seguendo la stessa logica di stratificazione che anima le sue opere: un rapporto di complicità in cui l’artista conduce e chi la supporta si limita a rimuovere ostacoli.

Il suo lavoro è difficile da imbrigliare. Le prime tracce erano piccole costellazioni di colore, file ordinate che tornavano su se stesse. Poi, all’improvviso, verso il 2013, la linea ha iniziato a girare in tondo e il disegno si è trasformato in vortice. La spirale, come spinta da una necessità interna, si è fatta più ampia, più densa, più insistente. Da lì è partita la seconda metamorfosi. Quando Kalu ha avuto accesso a spazi più ampi, la bidimensionalità è esplosa in scultura. Ha iniziato a fasciarsi intorno a ogni supporto possibile, inglobando grate, pilastri, serrande, generando strutture che crescevano come organismi. Da piccoli nuclei si è arrivati a forme monumentali, sospese, multicorpi.

La materia preferita è il nastro, il filo, il film plastico. Il più amato è quello della vecchia VHS, trovato per caso e mai più abbandonato. La usa come un’estensione del proprio gesto, come una linea che non vuole interrompersi. Ne avvolge strati infiniti, li tende, li intreccia, li annoda. Ogni opera è il risultato di una lunga accumulazione, una costruzione che procede per ritmi interni, spesso accompagnata da musica, perché per Kalu il lavoro è movimento, danza, trance creativa.

Avvicinarsi alle sue sculture significa entrare in una zona di confine. Le forme sembrano vive, pronte a espandersi oltre il limite imposto dal cavo o dal nastro che le contiene. Hanno un’energia crescente, quasi una pressione interna. Non si capisce dove finiscano e dove inizi lo spazio che le circonda. Il corpo dell’artista è presente ovunque, come se fosse rimasto impigliato tra le trame del materiale. Non è una figurazione del corpo, è la sua impronta, il suo ritmo congelato in una materia che resta inquieta.

Per questo la sua arte resiste alle categorie. Non cerca paragoni con la scultura astratta né si lascia tradurre in un mero esercizio di tecnica. È un’opera guidata da intenzione, urgenza, necessità. Un dialogo continuo tra chi crea e ciò che viene creato. Un processo che non separa l’atto dal risultato, ma li tiene insieme in un unico flusso continuo.

Nnena Kalu con delle sue opere. Courtesy of the artist and Action Space

Nnena Kalu con delle sue opere. Courtesy of the artist and Action Space

La sua vittoria al Turner Prize 2025 ha segnato un passaggio storico. Non solo perché è la prima artista con disabilità di apprendimento (autismo) a riceverlo, ma perché il premio riconosce finalmente la forza radicale della sua ricerca. I giudici hanno parlato della vitalità del suo gesto e della potenza delle sue forme, della capacità di trasformare materiali umili in presenze capaci di riempire la stanza. Ma chi conosce le sue opere sa che il punto non è la spettacolarità. È la precisione con cui la sua voce emerge, propria, non assimilabile, non estetizzata.

Il mondo dell’arte si sta accorgendo ora di ciò che molti osservatori hanno compreso da tempo. Kalu ha costruito nel silenzio una tra le pratiche più coerenti e fisiche della sua generazione. Le sue opere sono entrate nelle collezioni pubbliche, dalla Tate al fondo dell’Arts Council, e ogni nuova esposizione sembra rivelare un’evoluzione ulteriore, come se il suo linguaggio stesse ancora crescendo, ancora sperimentando, ancora ascoltando il proprio ritmo interno.

Oggi è diventata un modello per molti giovani artisti neurodivergenti. Non per ciò che rappresenta, ma per ciò che fa. Per la libertà con cui si muove nel suo lavoro, per la dedizione assoluta al gesto, per la capacità di trasformare materiali quotidiani in forme che sfidano la nostra percezione. Kalu non smette di costruire. Non smette di avvolgere, annodare, addensare. Non smette di far vivere quella linea che si allunga, procede, ritorna su se stessa e poi riparte. Una linea che, a guardarla bene, somiglia a una vita intera che trova finalmente lo spazio per espandersi.

Davide Landoni, 10 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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