Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image

Una veduta della casa di Silvio Castelli con opere di Andre, Fabro, Calder, Accardi e Dudley

Image

Una veduta della casa di Silvio Castelli con opere di Andre, Fabro, Calder, Accardi e Dudley

Dov’è la collezione fantasma?

La raccolta di arte contemporanea dell’imprenditore Silvio Castelli è scomparsa dal 1992

Image

Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Non erano molti in Italia, nei primi anni Settanta, i collezionisti di arte contemporanea americana. Il più celebre è, senza dubbio, Giuseppe Panza di Biumo ma, contemporaneamente a lui, un giovane e riservato imprenditore milanese, Silvio Castelli, volava due volte al mese a New York dove, da Leo Castelli (omonimo ma non parente), da Ileana Sonnabend e da John Weber, acquistava opere di Robert Ryman, Jim Dine, Carl Andre, Donald Judd, Frank Stella, Sol LeWitt e altri ancora.

Mentre a Andy Warhol (su suggerimento di Lucio Amelio, da cui aveva acquistato nel 1974, ad Art Basel, un magnifico «Beuys Portrait») commissionava nel 1981 un «dittico» con il proprio ritratto e quello dell’allora moglie. Michele Bonuomo, in visita alla Factory, li fotografò casualmente, appoggiati a terra, mentre ritraeva Warhol intento a riprendere un’altra committente e la foto fu poi pubblicata nel catalogo della mostra della Fondazione Mazzotta, «Warhol Beuys. Omaggio a Lucio Amelio» a Milano nel 2007-08.

«Passavo a New York due fine settimana ogni mese, rammenta Castelli, e trascorrevo tutto il mio tempo nelle gallerie o con gli artisti che (Leo Castelli soprattutto) mi presentavano perché potessi conoscerne a fondo il pensiero. Poi rientravo a Milano giusto in tempo per essere in ufficio, il lunedì mattina, un quarto d’ora prima di mio padre, che non condivideva per nulla la mia passione per questi “quadri bianchi”, tanto che minacciò più volte, scherzosamente, di diseredarmi».

In poco più di un decennio («negli anni Novanta smisi di collezionare quel tipo di arte perché era divenuta troppo commerciale e ripetitiva»), Silvio Castelli creò una magnifica raccolta della migliore arte americana del tempo, cui intanto si aggiungevano gli acquisti compiuti in Italia (da Christian Stein, Sperone, Marconi, Toselli, Minini): lavori sempre sceltissimi, spesso imponenti, di autori come Fontana, Melotti, Manzoni, Paolini, Kounellis, Fabro, Alighiero Boetti (una superba «Mappa»), Pistoletto (tre, fra veline e serigrafie su acciaio a specchio) e poi Icaro, Lo Savio, Schifano e Cy Twomby («le opere di Twombly le acquistavo da Gian Enzo Sperone, ricorda. E il prezzo, allora, era davvero abbordabile. Sebbene a New York, con il dollaro a 622 lire, si comprasse a quel tempo molto meglio che da noi»): la collezione arrivò così a comprendere una cinquantina di opere, tutte di altissima qualità.

Il grande Castellani accoglieva gli ospiti nell’ingresso dell’appartamento milanese, nel quartiere di Brera; il non meno imponente Kounellis e le opere di Judd, Robert Morris e Carl Andre circondavano il tavolo da pranzo. Quelle di Twombly, Paolini, Fontana, Sol LeWitt, insieme a un «Mobile» di Calder e al gigantesco «Piede» di cristallo di Fabro, dialogavano nel vasto soggiorno con un’altra scultura a pavimento di Carl Andre e, a distanza, con il coloratissimo Frank Stella e con il Ryman dello studio. E così era in ogni ambiente della casa, dove le opere erano accostate a essenziali arredi di design o a mobili e oggetti Art Nouveau e Art Déco.

Quella magnifica collezione, però, dal 1992 è scomparsa, e per circa trent’anni Silvio Castelli non ha più saputo dove fossero le opere da lui acquistate. È una storia intricata e anche dolorosa: un vero giallo, attualmente al centro di una vicenda giudiziaria che coinvolge svariati soggetti e che gli avvocati non permettono ancora di raccontare nella sua interezza ma che cercheremo di riassumere perché, a suo modo, esemplare.

Delle famose «tre D» (Death, Divorce, Debt) che, come sostengono le case d’asta, sono esiziali per la sopravvivenza delle collezioni, qui è stata la seconda (ma in seguito, come vedremo, anche la prima) a causare non tanto lo smembramento, quanto l’inabissamento di quel patrimonio d’arte. Silvio Castelli e la moglie si separarono nel 1984 in modo molto conflittuale e le opere restarono nella casa coniugale assegnata alla moglie e ai figli.

Fu alla fine del 1991 che si aggiunse la prima delle tre «D», con la morte prematura della moglie (da cui, a causa delle varie battaglie legali in corso, Silvio Castelli non aveva ancora divorziato), e solo allora il collezionista poté constatare che la grandissima maggioranza delle sue opere non era più nell’appartamento. Il che lo indusse anche a far pubblicare un articolo dedicato alla scomparsa della collezione sulla rivista trimestrale «Trace» («Important contemporary works missing in Italy», 1995) e su altre riviste di settore, cui è seguita la recente registrazione delle opere scomparse sull’«Art Loss Register» di Londra.

Opere invendibili, dunque. Ma allora perché non ricompaiono? Al di là del loro cospicuo valore, ognuna di esse è anche legata a momenti fondativi della vita personale e culturale di Silvio Castelli, che dell’arte s’innamorò da giovanissimo, intrecciandola sempre al suo impegno nell’impresa di famiglia (attiva nell’ambito dell’acciaio inox). Tanto che con un altrettanto giovane Massimo Minini, allora all’inizio della sua carriera di gallerista, nei primissimi anni Settanta, Castelli aprì in un luminoso seminterrato di casa sua uno spazio culturale («alla buona», minimizza) in cui, ricorda, «organizzavamo piccole mostre con aperitivi a base di pane, salame e vino. Finché un giorno l’amico Giorgio Marconi non mi telefonò, facendomi notare che ciò che facevamo non era correttissimo, trattandosi di una concorrenza non proprio leale. Fui d’accordo con lui e la mia esperienza nel “mercato” finì lì, ma per una ventina d’anni ancora l’arte mi avrebbe regalato emozioni indimenticabili».
 

Una veduta della casa di Silvio Castelli con opere di Andre, Fabro, Calder, Accardi e Dudley

A sinistra, lo studio di casa Castelli con opere di Stella e Ryman

Andy Warhol nel 1981 nel suo studio di NY con, appoggiati a terra, i ritratti del collezionista Castelli e della moglie

Il «Beuys Portrait» di Warhol

Ada Masoero, 25 febbraio 2021 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Da Arte Invernizzi, a Milano, sono esposte opere in plexiglas dell’artista veneziano che trasforma luce e colore in paesaggi mentali immersivi

Acquistati e restaurati da Banca Ifis sono esposti per un anno nella Pinacoteca di Brera in dialogo con altri capolavori del maestro neoclassico conservati nel museo

Le tele misteriose di Marta Ravasi incontrano le ceramiche evocative di Gaetano Di Gregorio in un’esposizione intima unisce materia, forma e silenzio poetico da Artcurial Milano

Parallelamente alla retrospettiva al Pac, da Lia Rumma a Milano una videoinstallazione dell’artista iraniana segue il viaggio simbolico di una giovane nei meandri dell’identità e del controllo sociale

Dov’è la collezione fantasma? | Ada Masoero

Dov’è la collezione fantasma? | Ada Masoero