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Elena Franzoia
Leggi i suoi articoliA un anno dalla riapertura totale dell’interamente rinnovato Museo della Moda e del Costume di Palazzo Pitti a Firenze, la selezione in mostra di opere del XX secolo si rinnova offrendo un nuovo e scenografico capitolo costituito da nove sale, che dalla sofisticata moda orientalista degli anni Venti conducono alla colorata contemporaneità di Roberto Capucci ed Enrico Coveri. Il frequentatissimo museo, ospitato dalla Palazzina della Meridiana, ha infatti deciso di rinnovare a cadenza annuale le collezioni in mostra, facendo riemergere a rotazione dai depositi abiti spesso inediti e sempre accuratamente restaurati, resi ancora più significativi dall’accostamento con coeve opere d’arte delle collezioni degli Uffizi. Come ha ribadito il direttore delle Gallerie degli Uffizi Simone Verde durante la presentazione alla stampa, «questa nuova selezione racconta la moda del Novecento come linguaggio visivo e culturale, in dialogo costante con la pittura e le arti. Dalle “flapper” degli anni Venti che segnano gli albori dell’emancipazione femminile conseguente alla prima guerra mondiale, al tailleur della donna manager contemporanea, la moda si rivela specchio della trasformazione del femminile, affiancando e arricchendo la narrazione figurativa dell’arte». Restano invariate le sale della moda sette-ottocentesca e degli abiti medicei. Parliamo del nuovo allestimento con Simone Verde e Vanessa Gavioli, curatrice del museo.
Quali sono le caratteristiche del nuovo allestimento, gli abiti e le opere più significativi?
Simone Verde: Abbiamo rinnovato il cosiddetto «fuori vetrina» che caratterizza le sale dalla 7 in poi, coprendo un arco temporale che dagli anni Venti giunge a oggi. Partiamo dall’Orientalismo e dalla moda Charleston per giungere alla contemporaneità, rappresentata da un focus dedicato a Enrico Coveri. Tra i capolavori compaiono ad esempio due abiti della sala 7, uno appartenuto a donna Franca Florio e l’altro indossato dalla moglie di Galileo Chini, Elvira. Da una lettera della nipote, donatrice del capo, apprendiamo che quando Chini ebbe l’incarico dal re del Siam e partì per Bangkok, la moglie preferì rimanere a Firenze. Al suo ritorno Chini regalò alla moglie il prezioso abito che presentiamo, indossato per la prima di «Turandot» di Puccini alla Scala di Milano, il 25 aprile 1926. Per questo abbiamo scelto di esporre nella sala il magnifico trittico siamese di Chini di proprietà del complesso degli Uffizi, in genere esposto alla Galleria di Arte Moderna (Gam) di Palazzo Pitti. Di spicco sono poi gli abiti esposti nella sala 9, dedicata agli anni Trenta. Qui un dipinto di Felice Casorati sempre appartenente alle collezioni della Gam, «Lo Straniero», accompagna due straordinari abiti di Vionnet e due di Schiaparelli che richiamano il Surrealismo. Non c’è un legame diretto, filologico, tra Casorati e la cultura francese di questi abiti, ma si avverte il clima della post-avanguardia e del ritorno all’ordine, con un ritorno alla figuratività segnato da un senso di sospensione, di sintesi quasi metafisica.
Come mai l’abito rosso di Schiaparelli è diventato l’immagine simbolo del nuovo allestimento?
Vanessa Gavioli: A parte il fatto di essere estremamente scenografico, è anche un abito estremamente significativo per il nostro essere un museo, non un archivio di moda. Quest’abito ha infatti alle spalle una affascinante storia collezionistica, essendo appartenuto ad Anna Piaggi (influente giornalista, scrittrice e «socialite», 1931-2012; Ndr) che lo ha modificato per poterlo indossare. Un elemento di grande interesse che risente del gusto surrealista è il grande fiocco/tasca laterale, trattandosi non solo di un ornamento ma anche di una specie di manicotto che può contenere degli oggetti. Si tratta di un acquisto dello Stato all’esportazione del 2010. All’epoca la collezione di Anna Piaggi stava partendo per Londra, ma lo Stato italiano ne ha acquisito un importante nucleo di sei abiti allo scopo di destinarlo al nostro museo, che è il primo statale dedicato alla moda e al costume.
Come vengono conservati gli abiti e realizzati gli allestimenti?
Verde: Gli abiti sono conservati nei depositi, che si trovano nella Palazzina della Meridiana al di sotto del museo attuale e conservano più di 15mila numeri d’inventario, divisi circa a metà tra abiti e accessori. Gli abiti in particolare vengono conservati orizzontalmente all’interno di scatole dotate di veline antiacidi che ne impediscono il degrado. Ci sono però dei materiali che non possono rimanere troppo a lungo a contatto. I bottoni di metallo ad esempio vengono isolati, in modo da non restare in contatto con il tessuto che spesso è molto delicato. Frequentemente ci troviamo quindi davanti ad abiti «smontati». Ci è accaduto ad esempio con il magnifico abito da matrimonio dello stilista britannico Charles Frederick Worth che esponiamo nella sala dedicata all’Ottocento, la cui «tournure» (il grande fiocco intorno ai fianchi) è stato ricostruito grazie ai dipinti e alla stampa di moda dell’epoca. Quando andiamo a installare questi abiti, abbiamo anche il problema di lavorare con una specie di «corpo sottratto». Si tratta infatti spesso di pezzi unici sartoriali, quindi progettati intorno a uno specifico corpo che non conosciamo più, così come spesso non conosciamo più l’originale proprietaria. Dobbiamo quindi scegliere dei manichini adatti, che tengano conto del cambiamento della silhouette femminile nel corso del tempo. Ovviamente sia per la conservazione sia per l’esposizione ci avvaliamo di personale altamente specializzato come i restauratori specializzati in vestizione, che sono peraltro pochissimi in Italia. In genere si formano prima all’Opificio delle Pietre Dure e poi qui da noi oppure al Museo del Tessuto di Prato. Tutti gli abiti esposti vengono poi supervisionati ogni lunedì, a museo chiuso.
Da che cosa dipende la rotazione dei pezzi?
Gavioli: Chiaramente dallo stato di conservazione. Ad esempio, nell’allestimento precedente abbiamo cambiato due volte il «pezzo d’onore» del Saloncino da Ballo, prima il manto bianco di Worth per donna Franca Florio e poi il «Pisanello» di Rosa Genoni. Data la loro fragilità, la scelta era tra non esporli proprio o limitarci a un periodo molto breve, 3 o 4 mesi, monitorandoli. Ma erano talmente belli che abbiamo scelto la seconda strada, anche perché comunque il manto di donna Franca doveva essere restaurato per potere essere esposto all’attuale mostra parigina su Worth. D’altronde noi, secondo me, abbiamo anche il ruolo di rendere felici le persone attraverso la bellezza, e a me rende immensamente orgogliosa vedere che questo museo fa affiorare il sorriso sulla bocca delle persone. Sto spesso in sala per vedere le reazioni dei visitatori e capire se ci sono delle criticità. Ad esempio ho fatto cambiare le didascalie, che ora sono bianche a rilievo su sfondo nero opaco, in modo da non riflettere. Sono comunque i restauratori a dirmi quanto a lungo può rimanere esposto un abito, come ad esempio quelli Charleston che subiscono il peso delle perline di vetro. Facciamo un monitoraggio ogni tre settimane, così capiamo se l’abito sta soffrendo per elementi che possono essere la luce o la stessa verticalizzazione.
Come avviene la scelta delle opere d’arte che connotano le sale?
Verde: Abbiamo scelto di abbinare abiti a dipinti e sculture, in modo da contestualizzare entrambi, offrendo maggiore visibilità alle opere delle nostre collezioni moderne e contemporanee, altrimenti poco note al grande pubblico e spesso anche poco visibili.
In un museo che deve molto a lasciti e donazioni, qual è stata l’ultima acquisizione importante?
Gavioli: La donazione più importante degli ultimi anni, che però non è tanto recente perché si parla degli anni Dieci del 2000, è quella di Cecilia Matteucci Lavarini, collezionista bolognese che ci ha donato 350 abiti tra cui alcuni capi iconici che mi permettono di lavorare anche sulla moda contemporanea. Uno per tutti, rarissimo, è la tutina di Courrèges esposta nel nuovo allestimento davanti al grande quadro di Burri nella sala adesso dedicata allo «Space Age Movement» degli anni Sessanta, una specie di subcultura di avanguardia contemporanea che ha avuto come protagonisti Courrèges, Pierre Cardin, Paco Rabanne e André Laugh. Si tratta di un movimento ispirato all’estetica futuristica che scaturisce dai vari tentativi di allunaggio e ritroviamo al cinema in «Barbarella» o nei film di Michelangelo Antonioni ed Elio Petri.

Una veduta dell’allestimento degli abiti del ’900 al Museo della Moda di Palazzo Pitti a Firenze

Una veduta dell’allestimento degli abiti del ’900 al Museo della Moda di Palazzo Pitti a Firenze

Una veduta dell’allestimento degli abiti del ’900 al Museo della Moda di Palazzo Pitti a Firenze

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