Con gli affreschi della sua abside centrale, la piccola Chiesa di Santa Maria foris portas nel Parco Archeologico di Castelseprio, unico edificio sopravvissuto alla distruzione del borgo fortificato fuori dal quale sorgeva, rappresenta una delle testimonianze più importanti della pittura murale europea nell’Alto Medioevo. Grazie al programma biennale «Restituzioni» di Intesa Sanpaolo, hanno preso il via i lavori di monitoraggio e di manutenzione del ciclo di affreschi, condotti da Luigi Parma (Milano) con un cantiere che non chiuderà l’accesso ai visitatori di questo sito diretto da Stefano Aiello. Dal 2011 il Parco Archeologico di Castelseprio è entrato a far parte del Patrimonio dell’umanità dell’Unesco e fa capo alla Direzione Regionale Musei Lombardi. Obiettivo dell’intervento sono la mappatura completa dello stato di conservazione degli affreschi e la loro spolveratura e pulitura a secco, con iniezioni di malta idraulica naturale in caso di distacchi dell’intonaco.
Scoperti nel 1944 da Gian Piero Bognetti, gli affreschi, solo in parte conservati, dell’abside maggiore di questa piccola chiesa dalla pianta trilobata sono disposti su un doppio registro. Rappresentano episodi dell’infanzia di Cristo tratti dai Vangeli apocrifi: dall’«Annunciazione» alla «Visitazione», alla «Prova delle Acque Amare», un «test» cui Maria fu sottoposta per provare la sua verginità. Misterioso e più che originale l’autore (forse costantinopolitano, essendo i nomi dei personaggi scritti in caratteri greci), che con i suoi modi pittorici legati alla pittura classica non trova riscontro in altri dipinti murali altomedievali. Ma misteriosa è anche la datazione, sulla quale il dibattito fra gli studiosi è tuttora aperto: c’è chi sostiene che risalgano al VI secolo d.C. quando, in età tardoantica, la Penisola fu occupata da Bisanzio, e chi invece sposta la datazione all’età longobarda, intorno al VII secolo, quando l’eresia ariana metteva in dubbio la natura divina di Cristo, ribadita invece con forza in questi affreschi. Chi infine li fa slittare al IX secolo, in seno alla contrapposizione tra le Chiese orientale e romana intorno al culto delle immagini sacre. Né l’unicità stilistica di queste pitture, che non hanno paragoni altrove, aiuta a sciogliere l’enigma. Restaurati esemplarmente nei primi anni Novanta da Pinin Barcilon Brambilla, gli affreschi, come spiega Luigi Parma, «saranno sottoposti a un intervento di carattere conservativo e manutentivo» corredato da documentazione fotografica a luce diffusa e radente, con l’utilizzo, ove necessario, di nanotecnologie.
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