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David Landau
Leggi i suoi articoli«Monroe era una provocazione… ma la Bardot era la vera protagonista». In questa frase -che riassume bene una certa gerarchia simbolica degli anni Sessanta- si condensa il motivo per cui Andy Warhol non poteva non ritrarre Brigitte Bardot. Se Marilyn Monroe aveva incarnato la tragedia glamour dell’America del dopoguerra, Bardot rappresentava qualcosa di diverso e forse più radicale: una sessualità europea liberata, politicizzata, capace di farsi immagine identitaria di una nazione intera.
Negli anni Sessanta e nei primi Settanta, lo status iconico di Bardot era tale da travalicare il cinema. Non era soltanto la “gattina sexy” per eccellenza o la star della Nouvelle Vague più popolare nel mondo, ma anche il volto attraverso cui una Francia giovane, post-coloniale e post-1968 si guardava allo specchio. Non a caso, alla fine del decennio, un suo programma televisivo si apriva con immagini di lei nuda avvolta nel tricolore francese: un gesto che fondeva erotismo, nazione e provocazione politica. Questa identificazione non rimase simbolica. Nel 1970 lo scultore Alain Gourdon utilizzò Bardot come modello per un busto di Marianne, l’allegoria della Repubblica francese. La sex symbol di Saint-Tropez diventava così ufficialmente emblema civico, incarnazione di una Francia moderna, sensuale, emancipata. Una trasformazione che anticipa, per certi versi, il modo in cui Warhol avrebbe fissato Bardot nella pittura.
Nel 1974, a 39 anni, Bardot era ancora all’apice della fama. I suoi capelli biondi, l’eyeliner marcato e le labbra imbronciate erano un marchio visivo globale, sintesi perfetta di energia libera e carnalità. Fu proprio allora che spiazzò tutti annunciando il ritiro definitivo dal cinema. Lo fece con la sua consueta brutalità: «Ho fatto 48 film, di cui solo cinque erano buoni. Gli altri non valgono nulla. Non ne farò un altro». È in questo momento che Warhol interviene. Come aveva fatto con Marilyn Monroe dopo la sua morte e con Elizabeth Taylor durante una fase di grave malattia, l’artista americano sceglie di immortalare Bardot nel momento in cui abbandona la scena pubblica. Non è una celebrazione della celebrità in vita, ma una trasformazione dell’individuo in immagine definitiva.
Warhol stesso aveva ammesso di aver ritratto Liz Taylor quando «era così malata che tutti dicevano che sarebbe morta». Il procedimento sembra ripetersi: l’icona viene fissata quando il flusso mediatico si interrompe. Nel caso di Bardot, il ritiro dal cinema viene percepito come una sorta di scomparsa simbolica, quasi una morte pubblica.
Formalmente, il ritratto di Bardot del 1974 riprende le tecniche sviluppate da Warhol nei celebri cicli di Marilyn e Liz degli anni 1964-65: inquadratura frontale, taglio ravvicinato, colori cosmetici accesi su occhi e labbra, contrasto netto tra volto e fondo. Eppure, il risultato è profondamente diverso. A differenza delle icone pop “fredde” e serializzate di Marilyn, Bardot non appare come un prodotto consumistico svuotato o come una reliquia tragica. Il suo volto è cinematografico, caldo, intensamente presente. Immersa in una tonalità rosa-viola elettrica, l’immagine sembra vibrare più che congelarsi. È una vamp, non un simulacro.
Il trucco è minimo, quasi fedele alla sua estetica reale. Warhol non maschera Bardot: la intensifica. Gli occhi, attraversati da riflessi verdi innaturalmente vividi, sono messi in tensione con il rosso profondo delle labbra, un accostamento che accentua la natura vampiresca e sensuale dell’immagine. Lo sguardo non è assente o malinconico: è diretto, dominante, consapevole.
Warhol conosceva Bardot già dalla metà degli anni Sessanta. Secondo Gerard Malanga, suo assistente alla Factory, il film Sleep derivava da un’idea primordiale di Warhol: girare un film di Bardot che dorme, concepito ancora prima di possedere una macchina da presa o di conoscerla personalmente. Un desiderio di osservazione pura, quasi feticistica, che anticipa la sua ossessione per la celebrità come presenza passiva. Il primo incontro avvenne nel 1967 al Festival di Cannes, quando Warhol tentò invano di presentare Chelsea Girls. Il film venne di fatto censurato, e l’artista, amareggiato, rimase a Cannes raccogliendo firme e sostegni tra le celebrità. Bardot, allora sposata con Gunter Sachs (fotografo, playboy e collezionista legato a Warhol) fu tra le poche star francesi a sostenerlo apertamente.
Nonostante ciò, Warhol attese sette anni prima di ritrarla. Una scelta sorprendente, se si considera lo status iconico di Bardot già negli anni Sessanta. Il ritratto del 1974 è inoltre uno dei soli otto dipinti che Warhol realizzò in quel periodo a partire da una fotografia, segno di una scelta ponderata, non seriale. Riempendo completamente la superficie pittorica con il volto di Bardot, Warhol lascia che i suoi tratti dominino lo spazio visivo. È lo sguardo, soprattutto, a catturare l’osservatore: non uno sguardo vulnerabile, ma assertivo, quasi sfidante. Ed è qui che risiede la specificità di Bardot rispetto alle altre dive warholiane. Se Marilyn è icona della fragilità e Liz del glamour ferito, Bardot è presenza, corpo che non chiede pietà né distanza. Il “trattamento da star” di Warhol non la svuota, ma amplifica ciò che già era: una figura che unisce individuo e mito, persona e fenomeno culturale.
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