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Cristiano Berti

© Francesca Tilio

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Cristiano Berti

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Berti e Boggiano, la storia di un cognome in un libro d’artista

Nell’ambito del secondo dei «Cicli futili», Cristiano Berti indaga il lascito di un emigrato savonese in un’opera che coniuga arte e archeologia

Karin Gavassa

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Eredi Boggiano (edito da Quodlibet) è il titolo del libro d’artista realizzato da Cristiano Berti (Torino, 1967) nell’ambito del secondo dei «Cicli futili», cui fanno capo una serie di opere ibride nella quale l’artista scopre affinità e distanze tra ricerca storica e ricerca artistica. Al centro della nuova indagine vi è il lascito immateriale di un facoltoso commerciante, Antonio Boggiano (Savona, 1778 - Trinidad di Cuba, 1860). Figlio cadetto di un orafo, partì diciottenne da Cadice nel 1796, diretto a Cuba, visse a più riprese sull’isola, dove fece fortuna come commerciante e proprietario di una grande piantagione di caffè sulle montagne retrostanti Trinidad. Fu, tra le varie cose, committente di un altare di marmo bianco che si trova oggi nella chiesa più importante di Trinidad. Boggiano ebbe nove figli, sette dei quali raggiunsero l’età adulta. La maggior parte di loro visse lungamente a Cuba, ma dieci anni dopo la morte del padre nessuno di loro era più sull’isola. Nel caso dei Boggiano cubani, il cognome indica la discendenza degli schiavi da lui posseduti. Il cognome diventa così una storia: «I cognomi sono come formiche della storia e se avviciniamo lo sguardo rivelano di tutto», spiega l’artista. Al quale abbiamo rivolto alcune domande.

Discendenti degli schiavi di Antonio Boggiano che oggi portano il suo cognome. © Francesca Tilio

In che modo i cognomi rivelano gli indizi che diventano l’elemento fondamentale della sua ricerca?
Nel 2014, per seguire le orme di un antico emigrante ligure, mi sono ritrovato a Trinidad, di fronte a una persona che portava quello stesso cognome, ma era di chiara ascendenza africana. La curiosità nata da quell’incontro inatteso che ha dato origine a un lavoro durato anni è, a mio modo di vedere, uno dei motivi per cui vale ancora la pena fare arte, parlare d’arte, visitare una mostra.

Il suo lavoro è caratterizzato da un approccio da archeologo in cui gli indizi raccolti collegano tempi e mondi lontanissimi. Come si concilia una ricerca di questo tipo con l’arte? Forse nella profondità dello sguardo?
In genere posiamo lo sguardo su ciò che ci circonda in modo distratto, sono le bizzarrie ad attrarre la nostra attenzione. Ma a ben vedere tutto può sembrare bizzarro, basta cambiare angolo e guardare sul serio. Perciò ha ragione, uno dei motivi ricorrenti nel mio lavoro è quello di un avvicinare lo sguardo e badare anche alle cose minute, proprio come farebbe un archeologo che osserva un pozzo medievale, per il quale un seme, un dente o un frammento di vasellame sono altrettanti pianeti da esplorare. La sequenza di nomi che occupa la seconda parte del libro è un esempio di questo tipo di scavo. Decine e decine di vite di cui restapochissimo, come polvere radunata in modo da formare uno strano monumento.

Uno still del video

In quali scaffali delle librerie collocherebbe il suo ultimo lavoro, tra i libri d’artista o tra i saggi storici?
Trovo molto interessante che Quodlibet abbia una collana di libri d’artista. Fatta di volumi che si allontanano dalla concezione artigianale, dall’idea del libro raro e da collezione. I miei Gaggini. Le Alpi e il Tropico del Cancro (2017) ed Eredi Boggiano (2022) rappresentano questa nuova concezione del libro d’artista in una forma abbastanza radicale, non solo perché sono privi di immagini, ma anche perché sono dei veri e propri saggi storici. Da un punto di vista oggettuale si mimetizzano perfettamente, per grafica e formato, tra i saggi della casa editrice. E in effetti Eredi Boggiano, come il precedente, è un libro di natura ambigua, che non è semplice classificare.

Karin Gavassa, 08 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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