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Lavinia Trivulzio
Leggi i suoi articoliAl Mayassa bint Hamad Al-Thani appartiene alla categoria di personaggi che, pur muovendosi dietro le quinte di un potere culturale immenso, hanno saputo plasmare un’intera era del collezionismo e della politica museale globale. Nata a Doha nel 1983, figlia dell’allora emiro Hamad bin Khalifa Al-Thani e sorella dell’attuale emiro Tamim, cresce all’interno di una delle famiglie sovrane più influenti del Golfo, nel cuore di un sistema dinastico in cui il potere non è solo politico ma anche, sempre più, culturale. È in quel contesto che la giovane Al Mayassa apprende come la cultura possa funzionare da estensione della leadership, da infrastruttura simbolica di una nazione in piena metamorfosi. Ma è fuori da Doha, negli Stati Uniti, alla Duke University, che sviluppa la consapevolezza della cultura come linguaggio condiviso, come spazio in cui l’autorità dinastica non basta: serve una direzione, una poetica, una visione. È un’attitudine che riaffiora in tutto ciò che farà negli anni successivi, quando le viene affidata la guida di Qatar Museums, l’istituzione chiamata non solo a custodire musei e collezioni, ma a costruire un’identità culturale per un Paese che stava ridefinendo se stesso a una velocità senza precedenti. L'incarico non è un semplice ruolo istituzionale, ma il segnale che la famiglia reale ha scelto proprio lei per dare forma al proprio progetto.
La parabola professionale di Al Mayassa si sviluppa poi come una lunga composizione, fatta di ingressi calibrati e improvvise accelerazioni. In pochi anni Doha passa dall’avere un sistema culturale frammentato a un panorama museale riconoscibile, con istituzioni come il Museum of Islamic Art, il Mathaf e il National Museum of Qatar che diventano simboli architettonici e narrativi di una nuova ambizione nazionale. E mentre la struttura si consolida, la principessa mette in moto la parte più controversa e insieme affascinante della sua strategia: l’ingresso deciso nel mercato globale dell’arte, che la trasforma in una figura chiave capace di modificare gli equilibri internazionali con acquisti che diventano quasi leggendari. Da White Center di Mark Rothko, comprato nel 2007 per 72,8 milioni di dollari, fino all'ancora più clamoroso The Card Players di Cézanne (250 milioni di dollari), Al Mayassa costruisce un patrimonio che funziona come dispositivo culturale pensato per posizionare il Qatar nel cuore del discorso globale. Le opere non servono a decorare un palazzo né a gonfiare un prestigio privato: sono parte di un progetto più ampio, in cui l’arte diventa un linguaggio diplomatico, una forma di soft power che cerca interlocutori e riconoscimento attraverso lo sguardo.
La sua figura, però, non si limita all'immagine di una collezionista che muove capitali smisurati. È anche architetta di una rete di programmi educativi, residenze artistiche e istituzioni - come il Doha Film Institute e la Fire Station - che negli ultimi anni hanno nutrito la scena creativa locale, offrendo a giovani artisti la possibilità di formarsi in un ambiente sempre più connesso a ciò che accade nel resto del mondo. In questo senso, Al Mayassa rappresenta una generazione nuova di leader culturali del Golfo, radicati nella propria tradizione ma determinati a riscrivere il modo in cui quella tradizione dialoga con il contemporaneo. Naturalmente, questa trasformazione non è esente da critiche. C’è chi legge negli investimenti culturali del Qatar una strategia politica più che un impulso autenticamente artistico, chi sottolinea la tensione tra un’identità locale da preservare e una proiezione internazionale spesso dominata da codici occidentali, chi vede nel collezionismo sovrano una forma sofisticata di influenza geopolitica. E tuttavia, nel giudicare la figura di Al Mayassa, è impossibile ignorare la complessità del contesto in cui opera e la forza con cui la sua visione ha ridefinito uno spazio culturale intero, trasformandolo in uno snodo capace di attrarre architetti, curatori, artisti e istituzioni da ogni parte del mondo.
Oggi, mentre Doha sperimenta nuove forme di partecipazione culturale e si apre a collaborazioni che fino a pochi anni fa sarebbero state impensabili, il ruolo di Al Mayassa appare sempre più quello di una regista silenziosa, che orchestra prestiti, mostre, dibattiti e scambi per scrivere un racconto del Qatar meno prevedibile di quanto si possa immaginare. E nella traiettoria di questa donna, che unisce status, strategia e una certa dose di audacia, si intravede la cifra di una nuova politica culturale. Non più confinata a un esercizio di rappresentanza, ma ambiziosa al punto da voler ridefinire il modo stesso in cui pensiamo alla centralità culturale nel mondo arabo e oltre.
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