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Era il 1965 quando Giorgio Marconi aprì a Milano lo Studio Marconi, in un vecchio casamento di via Tadino 15, in Porta Venezia: stesso indirizzo della bottega da corniciaio del padre Egisto (famosa, tra le altre, la sua «cornice Sironi», l’unica che il maestro volesse per le sue opere) dove Giorgio, a contatto con gli artisti amici che passavano a trovarlo, imparò a «guardare le opere attraverso i loro occhi». Negli ultimi anni, quando ancora la malattia non l’aveva aggredito, gli piaceva rammentare il padre («il mio primo maestro», diceva) e nello studio dove riceveva artisti, storici dell’arte, curatori, giornalisti, amici, aveva voluto accanto alla scrivania il suo vecchio tavolo di legno, macchiato e logoro per il lavoro di tanti anni. In pochi anni lo Studio Marconi divenne uno dei poli più vivaci (il più vivace? Forse sì) della vita artistica milanese: lì c’erano sempre i quattro giovani (Adami, Del Pezzo, Schifano, Tadini) con cui lo inaugurò, l’11 novembre 1965, e presto arrivarono, per le loro mostre e poi anche per amicizia, David Hockney, Mondino, Pardi, Arnaldo Pomodoro, Maraniello, Baj. Nel 1969 fu la volta di Man Ray, di cui Giorgio Marconi riunì un archivio imponente, al pari di quello di Sonia Delaunay. Dal 1971 in poi, le mostre di Calder, di Christo, di Beuys e di Louise Nevelson, di cui divenne caro amico. E poi ancora Uncini, Gianni Colombo, Paolini, Ceroli, Boetti. E Burri, Fontana, Rotella, Miró, e tanti altri ancora, da Sam Francis a De Kooning a Tàpies, da César a Anthony Caro. Molti nomi non meno significativi sono rimasti fuori da questo elenco frettoloso ma non era solo la somma dei talenti che Giorgio Marconi seppe coinvolgere, quanto il clima di collaborazione che regnava nello Studio Marconi a farne un luogo speciale.

«Two Gentlemen of Alba» (1991) di Richard Hamilton
Collaborazione, amicizia, lavoro, certo, ma anche divertimento: a Natalia Aspesi che lo intervistava per il libro (Skira, 2004) «Autobiografia di una galleria. Lo Studio Marconi 1965/1992», lui dichiarò, sornione, «che il tempo sia passato non me ne sono neppure accorto, di sicuro mi sono divertito molto». E lei scelse questa frase come titolo del testo. E come lui si divertivano tutti coloro che frequentavano la sua galleria o la sua casa colma di capolavori. Nel 1992 lo Studio, intanto molto ingrandito, chiuse i battenti con la mostra dell’amico Hsiao Chin. Nacque negli stessi spazi la Galleria Gió Marconi, insieme al figlio. Poi, nel 2004, la svolta della Fondazione: in sede, allestite sui tre piani, si susseguirono mostre museali di autori museali, e fuori, in Italia e all’estero, tante mostre dei suoi artisti da lui promosse. Non a caso, nel 2018, l’Angamc, l’Associazione nazionale delle gallerie d’arte moderna e contemporanea, gli conferì il Premio alla carriera. Ora, negli spazi dell’ex Fondazione, diventata nel frattempo Galleria Gió Marconi, tocca al figlio (che ovviamente ha ampliato lo sguardo anche su nuovi artisti) portarne avanti l’eredità, perché quello «dei Marconi» è un patrimonio culturale che non può in nessun caso andare disperso.
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