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Enrico Prampolini, «Automatismo polimaterico F», 1941. Lugano, Collezione Giancarlo e Danna Olgiati. Foto: Stefania Beretta

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Enrico Prampolini, «Automatismo polimaterico F», 1941. Lugano, Collezione Giancarlo e Danna Olgiati. Foto: Stefania Beretta

A Lugano la materia eterodossa di Prampolini e Burri

Alla Collezione Giancarlo e Danna Olgiati una riflessione sull’utilizzo di materiali entra artistici nei lavori di due maestri del ’900

Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Nel 2023, il confronto tra Giacomo Balla e Piero Dorazio, in una mostra memorabile sul tema della luce curata da Gabriella Belli; nel 2024, il dialogo intrecciato da Yves Klein e Arman, protagonisti del Nouveau Réalisme, nella mostra non meno appassionante «Le Vide et Le Plein», curata da Bruno Corà. Ora, per il suo nuovo progetto autunnale, la Collezione Giancarlo e Danna Olgiati di Lugano presenta un’altra «coppia» di autentici maestri: intitolata «Prampolini Burri. Della Materia» (dal 21 settembre all’11 gennaio 2026) e realizzata con la Fondazione Burri di Città di Castello, la mostra indaga un altro aspetto centrale nella riflessione artistica del ’900, quello dell’utilizzo di materie extra artistiche, e lo fa affiancando i due curatori delle rassegne precedenti, Gabriella Belli e Bruno Corà (anche presidente della Fondazione Burri di Città di Castello) e con l’allestimento di Mario Botta.   

Ventuno anni dividevano i due protagonisti (Enrico Prampolini era nato nel 1894 e morì nel 1956; Alberto Burri, nato nel 1915, morirà nel 1995). A unirli invece, oltre all’uso di materiali eterodossi, era anche Roma, dove entrambi erano attivi, ma Burri non sentiva di dovere alcunché al futurista: «Non si amavano, spiega Gabriella Belli. Per Burri, Prampolini a Roma esercitava troppa influenza sul sistema dell’arte. Ma a dividerli, oltre allo scarto generazionale, era anche l’uso profondamente diverso che i due facevano delle materie: ancora evocativo e simbolico per Prampolini, di tutt’altra natura per Burri; sebbene sia innegabile che l’idea del polimaterismo in Italia sia appannaggio del Futurismo. Qui abbiamo voluto semplicemente raccontare una contiguità di situazioni». 

Contiguità di forte suggestione, cui si aggiunge, per ciò che concerne Prampolini, la volontà di mettere in evidenza l’internazionalità del suo sguardo grazie alle relazioni da lui intessute con l’Europa intera, muovendosi tra Futurismo (di cui fu, cronologicamente, il terzo grande teorico, dopo Boccioni e Balla, ma di tutti il più aperto al mondo) e, da un lato, Cubismo, Purismo e Surrealismo (al quale però non aderì) in Francia, e dall’altro Neoplasticismo olandese e Costruttivismo russo. A provarlo, in mostra, sono 25 selezionatissime opere, dal polimaterico «Béguinage», da lui datato 1914 (e nulla depone a favore di una datazione più tarda) alla «Natura morta» del 1916, dalle opere del Futurismo meccanico degli anni Venti fino ai lavori «cosmici» e alla pittura di astrazione informale dei Cinquanta: «Non dobbiamo dimenticare, nota Gabriella Belli, che poco prima di morire, nel 1916, Boccioni aveva impresso alla sua pittura una virata “cézanniana”, e che Balla dalla fine degli anni Venti aveva abbandonato il Futurismo: Prampolini no, lui fu l’unico che negli anni Trenta, filtrando il Futurismo attraverso le avanguardie internazionali, seppe approdare a una forma nuova di pittura, per la quale non ebbe esitazione a utilizzare, con audacia precoce, materiali tra i più diversi, come le terre,  il sughero, la galalite e la spugna del capolavoro del 1930, “Intervista con la materia”, in prestito dalla Gam di Torino, opera aurorale della sua ultima fertilissima stagione creativa».

Quanto al rapporto con Burri, come ci precisa Corà, «i due a Roma si frequentarono nei primi anni Cinquanta, quando Burri aveva da poco ingaggiato il suo confronto con la materia. Prampolini non poté ignorarlo e, potente com’era (era a capo dell’Art Club), lo invitò a esporre un paio di volte ma relegandolo in posizioni infelici. A dividerli erano però soprattutto le ragioni dell’uso della materia, che per Burri significava un radicale azzeramento di tutto ciò con cui era venuto a contatto arrivando a Roma dopo la guerra e la prigionia. Era un uomo passato attraverso l’inferno e, arrivando, trovò un paese devastato. Cercava perciò un’autentica catarsi. La materia del sacco, con il suo vissuto, così come la plastica o il legno, gli offrivano l’opportunità di metterla in atto». 

La mostra espone 23 opere maggiori di Burri (catrami; magnifici sacchi; il «Grande Legno SP», 1958; il ferro «F 1958»; la precocissima plastica «Rosso Plastica», 1962, esposta in quell’anno alla Marlborough Gallery di Roma da Cesare Brandi, quando si ricredette sull’arte di Burri; il «Bianco Cretto C1» e altri ancora) che, puntualizza Corà, confermano che «Burri non fu un artista informale e che mai si abbandonava al caso. A lui, se mai, interessava vincere l’imprevisto e produrre l’equilibrio con la materia, governando l’imprevedibilità del fuoco sulla plastica o della colla nei cretti. Burri aveva un’etica della forma. Del resto, quante pedalate aveva fatto intorno a Città di Castello, in cerca dei capolavori di Raffaello, Perugino, Piero della Francesca, Signorelli! Non avrebbe potuto essere altrimenti».

Ada Masoero, 22 agosto 2025 | © Riproduzione riservata

A Lugano la materia eterodossa di Prampolini e Burri | Ada Masoero

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