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Rischa Paterlini
Leggi i suoi articoliAbbiamo intervistato in esclusiva il ventottenne Carlos Idun-Tawiah, artista ghanese con base ad Accra, vincitore della sezione «Segnalazioni» del Deloitte Photo Grant 2025 con il progetto «Hero, Father, Friend».
Il premio, promosso da Deloitte Italia, con il patrocinio di Fondazione Deloitte e sotto la direzione artistica di Denis Curti, è oggi un punto di riferimento nella fotografia contemporanea. Da quest’anno le opere vincitrici saranno esposte in Triennale Milano, dal 27 novembre al 25 gennaio 2026.
Attraverso le sue opere, Idun-Tawiah restituisce il ritratto di un artista che intreccia memoria privata e collettiva. Nei suoi racconti emergono l’amore per la famiglia, il legame con il padre perduto e la gratitudine verso la madre che ha custodito le prime immagini. Accanto a questa dimensione intima si avverte la responsabilità verso la comunità, che alimenta costantemente il suo sguardo e la sua pratica. «Sul piano filosofico, il lavoro di Carlos sfida la nozione tradizionale dell’archivio, come custode di ciò che è accaduto, suggerendo piuttosto che esso includa anche ciò che si è sperato», afferma Denis Curti, mentre Francesca Malgara, direttrice artistica di MIA Photo Fair e nominator del premio spiega: «La prima volta che ho visto una foto di Carlos Idun-Tawiah sono rimasta incantata dalla poesia e dalla patina dei colori: un’Africa positiva, fatta di valori e tradizioni. Il suo lavoro restituisce, con delicatezza e profondità, comunità, speranza e memoria; un’Africa che merita di essere vista così».
Ricorda quando ha scattato la sua prima fotografia?
Il mio primo vero incontro con la fotografia è stato in chiesa. Mia madre ci vestiva con i nostri abiti della domenica per fare un ritratto di famiglia con il nostro fotografo, lo zio Adu. Portava le stampe a casa durante la settimana e mia madre si prendeva cura degli album che condividevamo con i visitatori. Quei piccoli momenti hanno acceso la mia curiosità verso il mezzo. Non ho avuto modo di usare una macchina fotografica fino a quando mio padre non ci comprò delle Polaroid usa e getta con cui giocare. Più tardi mi regalò la mia prima reflex digitale: fu allora che iniziai davvero a sperimentare con gli amici. Da lì, le cose sono cresciute fino a diventare quello che sono oggi.

Carlos Idun-Tawiah, «Broken Bred» dalla serie «Hero, Father, Friend». © Carlos Idun-Tawiah, Photo Grant di Deloitte, 2025
Sul suo sito web si definisce fotografo e regista. Come dialogano per lei fotografia e cinema?
Jean-Luc Godard l’ha detto meglio di chiunque altro: «La fotografia è verità, e il cinema è verità a 24 fotogrammi al secondo». Le due forme sono sempre in dialogo, due facce della stessa medaglia. Spesso le mie fotografie vengono lette come fotogrammi: credo derivi dal fatto che mi affido molto al cinema per ampliare la mia visione. Mi entusiasma quando una foto sembra appartenere a una storia più grande, come se potesse muoversi, ma non lo fa. In quella tensione c’è la magia.
Ci sono artisti che la influenzano nella sua pratica?
La lista è lunga: da Roy DeCarava a Kerry James Marshall, da James Barnor a John Coltrane. Ho imparato moltissimo da registi, pittori, musicisti e fotografi di generazioni diverse. Alcuni giorni passo ore a guardare i film di Ousmane Sembène; altri li trascorro al Dipartimento dei Servizi d’Informazione del Ghana ad aiutare fotografi in pensione a riordinare i loro negativi. Prendo ispirazione da tutto questo.
Come vede il Ghana, suo paese d’origine, oggi?
Il Ghana è sempre stato più legato alle persone che al paesaggio. Nessuno viene qui senza percepire immediatamente calore e ospitalità. Forse è per questo che il mio lavoro insiste su amicizia, amore e famiglia: sono le cose che negli anni restano costanti.
Da dove nasce di solito una nuova serie per lei?
Con «Sunday Special» ho capito che anche un vecchio inno metodista può diventare fonte d’ispirazione. Da allora ho imparato che i lavori più profondi possono nascere dalle fonti più imprevedibili. Quando un’idea prende piede, ne parlo molto, con amici, familiari, persino con me stesso, finché non inizia a sembrare reale. C’è sempre un momento inspiegabile in cui capisci che l’idea è pronta a diventare qualcosa di più.
I suoi soggetti sono spesso giovani, ritratti in momenti sospesi e intimi. Che tipo di relazione costruisce con le persone che fotografa?
A volte vivo il processo come un esperimento sociale, lasciando i soggetti liberi di reagire secondo i propri termini. C’è un’onestà particolare nei giovani non abituati alla macchina fotografica: quella spontaneità porta freschezza. Con l’immagine «Mommy Smile», per esempio, il momento è stato del tutto spontaneo: un ragazzino prese la fotocamera dalla scatola degli oggetti di scena e quella curiosità divenne la fotografia.
La sua fotografia è riconoscibile per luce naturale e colori intensi. È una scelta estetica intenzionale?
Credo che il gusto non sia altro che la somma delle proprie esperienze, non solo con la fotografia, ma con la vita in generale. Il modo in cui uso la luce naturale, il colore o la composizione non ha a che fare con il cercare un certo «stile»; riguarda piuttosto il far emergere l’emozione che voglio dall’immagine o dall’idea. Ogni volta che non sono sicuro di quali colori scegliere o che tipo di luce usare, mi affido a come quegli elementi mi fanno sentire.

Carlos Idun-Tawiah, «Dance With My Father» dalla serie «Hero, Father, Friend». © Carlos Idun-Tawiah, Photo Grant di Deloitte, 2025
Il suo lavoro dà voce e dignità a chi spesso è escluso dalle narrazioni visive dominanti. Direbbe che la sua fotografia è politica o soprattutto emotiva?
Un’immagine può suscitare emozioni, ma anche sollevare domande su ciò che valorizziamo e scegliamo di rappresentare. Prenda «The Grass is Greener Where my Father Is» (2024), che ritrae un padre e un figlio mentre giocano a golf. È un’immagine tenera, ma anche potente: raramente vediamo padri e figli neri in momenti di quiete o intimità. Quell’assenza rende l’immagine politica, anche nella sua intimità.
Sarà la sua prima volta in Italia?
Sì, sarà la mia prima volta. Non vedo l’ora di immergermi nella cultura, nella lingua e in tutto il resto. Una delle mie opere scultoree preferite, «Il Cristo Velato» (1753) di Giuseppe Sanmartino, si trova in Italia. Ricordo di averla vista per la prima volta in un’enciclopedia da bambino, rivederla dal vivo sarà un momento di compimento.
Che cosa ha significato per lei ricevere il Deloitte Photo Grant?
Sinceramente mi sembra ancora un po’ irreale. Per un ragazzo di Accra che ha iniziato a fotografare per passione, significa moltissimo. Non è solo un traguardo personale: è un messaggio per chiunque insegua ciò che ama, anche alla cieca, ne vale la pena.
Il tema di questa edizione è «contrasti». Come lo ha interpretato?
«Hero, Father, Friend» esplora il contrasto tra presenza e assenza, memoria e immaginazione. Dopo aver perso mio padre a diciotto anni, mi sono ritrovato con pochissime fotografie di noi insieme, così questo lavoro è diventato un modo per colmare quei vuoti, mescolando momenti reali con altri immaginati. Per me, il contrasto vive in quello spazio tra fatto e finzione, dolore e desiderio, ritratti in posa e ricostruzioni intime. Parla anche di un contrasto più ampio, tra come la paternità nera viene spesso rappresentata e la tenerezza che io stesso ho vissuto.
Il Grant offre tempo, visibilità e risorse per sviluppare un nuovo progetto. Può raccontarci qualcosa della ricerca a cui sta lavorando? A che punto è?
In questo momento sto sviluppando «Hello, Carolyn», un memoir dedicato alla storia d’amore di mia madre e di mio padre. È il mio modo di dare forma ai momenti che hanno condiviso e che non furono mai fotografati. Lavoro insieme a mia madre per colmare quei vuoti attraverso le immagini, sperando che questa narrazione possa risuonare anche con chi vi riconoscerà la propria storia. Parallelamente, sto sviluppando un altro lavoro. intorno alla solitudine e all’urgenza di comunità nel mondo contemporaneo, ma è ancora troppo embrionale e quindi non posso dire molto di più per ora.
C’è una domanda che avrebbe voluto le fosse rivolta, ma che non le è stata posta?
Forse su come bilancio lavori personali e commissioni. Per me, l’approccio è simile: voglio che entrambi risultino pensati e onesti. Non nascondo il mio lavoro commerciale né lo considero meno importante. Se una commissione non mi convince, la rifiuto, ma quando invece funziona, diventa parte del mio mondo personale. Non c’è davvero una linea netta tra i due, solo modi diversi di raccontare una storia.

Carlos Idun-Tawiah, «My First Photgraph» dalla serie «Hero, Father, Friend». © Carlos Idun-Tawiah, Photo Grant di Deloitte, 2025
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