Un particolare di «August, autoritratto» (2005) di Wolfgang Tillmans

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Un particolare di «August, autoritratto» (2005) di Wolfgang Tillmans

Wolfgang Tillmans senza paura e senza rimproveri

Il Museum of Modern Art di New York ritorna su trent’anni d’esplorazione del medium fotografico da parte del fotografo tedesco, al di là di ogni convenzione

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Redazione GDA

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Con opere prodotte dagli anni ’80 ad oggi, per la sua prima retrospettiva museale a New York (12 settembre-1 gennaio 2023), Wolfgang Tillmans riempie il sesto piano del MoMA con 350 lavori, tra fotografie, video e installazioni multimediali. Classe 1968, l’artista tedesco ha da sempre basato la sua ricerca sulla sperimentazione fotografica e sul significato delle immagini. Abbiamo incontrato Tillmans nei giorni di allestimento della mostra.

Lei sta ultimando la preparazione della sua mostra al Museum of Modern Art (MoMA). A che punto è?
Sono giunto a una tappa davvero entusiasmante. Tutte le casse sono arrivate a New York assieme agli altri elementi della mostra, comprese le grandi fotografie che sono state arrotolate e trasportate in tubi. Un modo economico ed ecologico di spedire le opere; metodo che conoscevo e che utilizzo dall’inizio degli anni 1990.

Le opere provengono tutte dal suo atelier oppure sono stati richiesti prestiti?
Per le mostre nei musei, le opere provengono sempre dagli atelier. Si riduce così l’impatto carbonioso in termini di trasporto e si può avere più libertà nell’illuminazione delle opere. Amo mostrare le mie tirature in luoghi molto luminosi e non voglio avere preoccupazioni per la loro conservazione. Esporle alla luce per tre mesi non è un problema ma preferisco in ogni caso assumermi la responsabilità dello stato delle opere senza coinvolgere parti terze.

In altri termini, lei preferisce evitare il tipo di responsabilità che incombe sui musei a nome dei posteri?
Esattamente. L’artista non ha il diritto di toccare opere prestate, anche se è stato lui a realizzarle. La questione è complessa per una moltitudine di fattori. Sussiste per esempio il caso inverso in cui le opere si rovinano perché non sono esposte alla luce. Una fotografia a colori deve essere esposta a più di 50 lux. Mi preoccupo della conservazione dell’oggetto e della manifestazione dell’opera in sé dall’inizio degli anni 1990, quando ho inventato un sistema di tiratura a getto d’inchiostro ristampabile. Non era mai mostrata prima una fotografia in modo così delicato, aperto e non protetto. Per precauzione, ho stabilito al momento della vendita di accompagnare l’opera con un certificato e, inoltre, che la fonte dei dati dell’immagine siano consegnati al collezionista in modo da stampare un nuovo esemplare nel caso di perdita o usura dell’originale. Adoro il contrasto che si crea in una tiratura magnifica, ma non firmata e destinata a scomparire: la considero una metafora della vita, non possiamo conservare tutto. D’altro canto, grazie alla tecnologia permane la possibilità di stampare un altro esemplare cinque o dieci anni più tardi. E se migliora la tecnologia, migliorerà anche la stampa!
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Che cosa direbbe se tra qualche anno la tecnologia evolvesse tanto da modificare l’aspetto della vostra stampa per via di questo «miglioramento»?
Risulterà leggermente modificata, non è una questione di «se». Ma il proteggerla a ogni costo, il conservarla in determinate condizioni, l’incorniciarla rappresenta a mio avviso un’alterazione ulteriore che non sarebbe fedele alla mia intenzione artistica. Nel mio caso, le cose sono ancora più complesse poiché incornicio alcune delle mie stampe. Le grandi opere a getto d’inchiostro esistono in due versioni: uno non incorniciata, l’altra montata e incorniciata. Le considero come opere individuali e distinte. L’immagine è la stessa ma non l’oggetto. Può sembrare un fatto contraddittorio o paradossale ma così va la vita! Si tratta di due opere differenti e indipendenti l’una dall’altra, due maniere valide di vedere un’opera.

In che modo sceglie la forma e la dimensione da attribuire a ogni tiratura? Già le immagina al momento dello scatto oppure opera una selezione in atelier?

Le grandi fotocopie che ad oggi non produco più ma che hanno giocato un ruolo importante tra il 2005 e il 2014 sono stati realizzati con una tecnica d’ingrandimento in bianco e nero, senza che abbia poi mai mostrato le fotografie in tinta originale. Le opere astratte, prodotte senza macchina fotografica, sono ugualmente fatte con una sola tecnica in testa. Per tutte le opere che faccio con la macchina, decido la forma e poi le dimensioni in atelier. Funzionano secondo una logica che ho stabilito: tre formati e due presentazioni differenti, opera incorniciata e non incorniciata.

Come ha vissuto il ritorno d’interesse sulla sua opera per questa grande retrospettiva?
Sin dall’inizio, ho sempre ritenuto le mie opere precedenti come parte integrante delle nuove mostre. Questo deriva da un’idea personale: se amo qualcosa oggi, non c’è ragione perché io non la ami anche tra dieci anni. Se non dovessi amarla più, mi domanderei perché il mio giudizio è cambiato. Rivisito costantemente il mio lavoro per valutare il giudizio e la percezione che ne conservo. Perché la mia opera parla anche di tale aspetto: si tratta da un lato del piacere di vedere e giocare e dall’altro di una riflessione concettuale su che cos’è la fotografia e sul perché io scatti fotografie. Non è una situazione statica dato che non c’è una risposta definitiva alla domanda «Perché scattare una fotografia?». La sola domanda alla quale è possibile rispondere è «perché scattarla ora»? Ho sempre nutrito un profondo interesse per la questione del tempo. Sin dall’adolescenza, sono affascinato dalla storia recente, i cambiamenti della moda, della musica…Quando avevo 10 o 11 anni ho comperato un disco dei Beatles che risaliva a sei anni prima e mi pareva antico. Non mi sono interessato al punk quando è apparso perché ero troppo giovane. Cinque anni più tardi ci fu la «new wave» e tutto ciò accadeva in un determinato contesto, nel tempo e nello spazio. E se si compie uno zoom all’indietro, si notano dei cambiamenti politici importanti. Da adolescente e ancora oggi mi sento connesso a tale processo.

Colpisce che lei abbia fatto riferimento spontaneamente alla musica e alla storia in senso lato. Ha notato dei cambiamenti simili nelle arti visive?
Il mio interesse era principalmente focalizzato sulla società, il contesto politico e la cultura Pop ma anche alle Belle Arti. Ero consapevole di quello che succedeva nei musei attorno a me, nella Renania, dove sono cresciuto a Remscheid. A metà degli anni 1980, conoscevo le opere di Joseph Beuys, Gerhardt Richter, Sigmar Polke e percepisco l’aura che gravitava attorno a questi oggetti isolati su di un muro bianco. Sentivo di non aver bisogno di dipingere le mie immagini.
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La sua mostra al MoMA occuperà l'intero sesto piano del museo. So che le piace anticipare il più possibile l’allestimento e che per questo utilizzate dei modelli per immaginare l’effetto finale. Tuttavia, la presenza in loco avrà sicuramente un ruolo importante.
Cerco sempre di essere il più preparato possibile, ma anche di essere in grado di reagire allo spazio una volta sul posto. Nel corso degli anni ho notato che la gente risponde in modo molto forte al modo in cui attivo gli spazi, sia che si tratti del Palais de Tokyo a Parigi nel 2002 o del Mumok [Museum moderner Kunst Stiftung Ludwig] di Vienna quest’anno, la mostra più lunga che mi abbiano mai dedicato. Voglio assicurarmi che il peso di questa tappa importante della mia carriera, una mostra al MoMA, non mi paralizzi impedendomi di gestire lo spazio con gioia e divertimento. Nello stesso tempo, devo essere sensibile al ruolo che gioca il museo in materia di storia dell’arte. Accetto per questa ragione che si tratti di una retrospettiva e non di una mostra per la quale io possa scegliere questo o quell’angolo per dimostrare qualche cosa.

Anche se adoro far incrociare le linee del tempo, la diacronia riveste una certa importanza: sono molto sensibile al suo movimento lineare quindi la mostra è organizzata secondo una progressione cronologica. In più, se si considera che i visitatori di 25 o 35 anni possono non aver mai visto una mia mostra e nemmeno sapere che cosa fosse una mostra all’inizio degli anni 2000, le sale del MoMA tradurranno l’atmosfera di quest’epoca senza per questo farne una ricostruzione. Questi ambienti permetteranno ai visitatori di esperire l’evoluzione del mio lavoro e di come elementi nuovi si siano costantemente aggiunti, ad esempio i «paper drops». Nello stesso tempo, deve trasparire una certa continuità: le scene notturne non sono raggruppate ma distribuite nel percorso espositivo. Spero che tutte questi aspetti che mi girano in testa senza annoiarmi, la vita notturna, le pieghe dei tessuti, le «textures», i ritratti, creino un percorso interessante sui 1700 metri quadrati della mostra e che questa continuità sia stimolante piuttosto che ripetitiva.

Sembra molto attento alla fruizione del suo lavoro.
Lo sono sempre ma senza piegarmi alla ricerca di un consenso immaginario. Pensare al proprio pubblico non significa necessariamente non lanciargli delle sfide. Può essere pericoloso anticipare le aspettative del proprio pubblico ma non amo lavorare contro di esso. A volte vedo posizioni di artisti fortemente «antipubblico»: ogni artista ha il suo approccio e le sue ragioni che determinano la relazione tra oggetto e spettatore. Per me si deve trattare di un dialogo che mi permette di essere idiosincratico. Faccio ciò di cui ho voglia in ogni caso ma sono convinto che se cerco il meglio, ogni tipo di pubblico potrà beneficiarne. Al MoMA per esempio i visitatori avranno accesso a tutte le mostre del museo con lo stesso biglietto. In altri termini, un gran numero di persone potrebbero ritrovarsi a vistare la mia mostra senza averlo previsto. Ci saranno molti incontri inattesi con il mio lavoro.

Lei ama anche lanciarsi in sfide che la conducono a nuove partenze, come le sue esperienze in camera oscura.
Ho la fortuna che la mia carriera, almeno per come la vedo io dall'interno, si sia sviluppata come un'evoluzione piuttosto che come una rivoluzione. Non ho mai sentito di dover rompere gli schemi o buttare via un vecchio lavoro per farne uno nuovo. Lasciare da parte la macchina fotografica e realizzare immagini con la sola luce su carta fotosensibile è stato per me solo un piccolo passo da compiere, perché ero consapevole fin dall'inizio che la carta fotografica a colori era uno strumento magico. Se non siete sensibili a queste cose, potete semplicemente accettare che ci sono molte fotografie in questo mondo e che, sì, questo è ciò che accade con questo mezzo.

Ma tento sempre di scavare un po’ di più per capire come i colori arrivino sul foglio. Se riflettiamo sul modo in cui l’obiettivo riflette la luce sul foglio, ci rendiamo conto che questo fenomeno è il risultato dell’ingegnosità umana nonché del potere delle leggi fisiche. Così, se prendiamo le foto di «Concorde», all’epoca pensavo già che i blu e i rosa non fossero veramente il cielo ma dei coloranti fotografici. Il salto è stato quello di doler comprendere che cosa succede se si espongono solo alcuni colori alla luce sul foglio e per quale ragione a volte il risultato sembrava un cielo e a volte no. Tutto questo fa parte di un dialogo che si svolge lungo il XX secolo.
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Lei pensa che il suo interesse di lunga data per l’astronomia è ugualmente legato a questo dialogo?
Per me, l’astronomia rinvia alla questione dei limiti del visibile, a quello che possiamo discernere visualmente. Si tratta di un «rumore» oppure di un’informazione riconoscibile? Si tratta anche di un’inchiesta sugli strumenti ottici che utilizziamo: l’occhio innanzitutto. Che cos’è? Che cosa fa? Come funziona? E poi a seguire i telescopi, i film, i sensori. L’inchiesta scientifica è qualche cosa di sensuale e meraviglioso. Anche se queste immagini sono sovente sul bordo del nulla.

Lei pensa che la consapevolezza di una grandezza cosmica possa provocare un sentimento di vertigine ma anche forse di umiltà?
La mia pratica che consiste a fare delle immagini, di ritrarre quello che ci fa essere vivi oggi, è basato su un’umiltà che proviene da uno sguardo più ampio sulle cose. Tutto ciò che mi preoccupa enormemente è irrisorio se considerato in un contesto più vasto ma questo me lo rende per certi versi molto più caro.

Ha intitolato la sua prossima mostra «To look without fear».
È una frase che ho spesso pronunciato durante le conferenze o le interviste e si lega all’idea che dovremmo poter usare i nostri occhi liberamente. Si pensi per esempio al fotogiornalismo e agli adolescenti in fase di crescita. Ognuno dovrebbe essere autorizzato a guardare con libertà alle cose.

Questa frase vive nella speranza che gli spettatori, le spettatrici e io stesso possiamo aderire a ciò che vediamo in totale apertura. Con i tempi che corrono, spero che tale approccio non passi per naïve! Ci sono molte cose da temere ma desidero che il titolo della mostra serva da incoraggiamento. Come dice il celebre detto, non abbiamo niente da temere che non sia il timore stesso.

Traduzione di Mariaelena Floriani

Una veduta della mostra «Wolfgang Tillmans: Fragile» del 2019, Contemporary Art Gallery, Yaoundé, Camerun

«Wake» (2001) di Wolfgang Tillmans

«Still Life» (2001) di Wolfgang Tillmans

Redazione GDA, 13 settembre 2022 | © Riproduzione riservata

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