William Hogarth, un inguaribile colonialista

David Ekserdjian racconta l’esposizione in corso alla Tate Britain, in cui la satira inglese dell’autore viene contestualizzata (e condannata) in relazione all’attualità

«Marriage à la Mode: 2, The Tête à Tête», 1743-45 © The National Gallery, Londra «Three Ladies in a Grand Interior (The Broken Fan)», probabilmente Catherine Darnley, duchessa di Buckingham con due signore, di William Hogarth, 1736 circa
David Ekserdjian |  | Londra

Fino al 20 marzo la Tate Britain di Londra ospita «Hogarth e l’Europa», grande e bellissima mostra su William Hogarth molto adatta ai tempi odierni: non soltanto per gli appassionati dell’arte del Settecento, quanto piuttosto perché questi sono gli anni del Covid-19 e di George Floyd.

Forse perché ho una certa età, visito le mostre per studiare da vicino le opere d’arte e leggo pochissimo le didascalie attaccate al muro, fatta eccezione quando non riconosco la mano dell’artista o per informarmi della provenienza. Alla Tate Britain invece, i visitatori vengono esplicitamente esortati a indugiare per ore nella lettura dei testi murali riguardanti sia i temi delle sale sia le singole opere.

All’entrata viene dunque spiegato che i testi nelle varie sale sono il frutto della collaborazione tra i due organizzatori della mostra, Alice Ilsley e Martin Myrone, con l’aiuto di alcuni consulenti, mentre i testi a corredo delle singole opere sono firmati da 18 «commentatori», perlopiù storici dell’arte e restauratori, ma anche due artisti. Di costoro inoltre si possono vedere i ritratti fotografici e leggere le rispettive biografie (anche se molto probabilmente alcuni di questi storici avrebbero preferito di gran lunga l’anonimato). Alcuni di questi commenti sono assolutamente tradizionali e innocui.

Vi sono anche opere (due dipinti di Jean-Baptiste Siméon Chardin, per esempio) che non sono considerate degne neanche di una parola. Credo di aver capito la ragione: meglio restare in silenzio come un trappista (monaco cistercense riformato, Ndr), che discutere la forma di un dipinto invece che del suo contenuto. Si può osare dire di tutto per punire Hogarth quando non è «politically correct» (cioè quasi sempre), ma ammettere che un suo quadro sia bello o brutto oggi sarebbe un peccato mortale. In molti casi, i commenti presenti nella mostra hanno già suscitato fiumi di critiche, poiché sfruttano le opere per insistere sul loro razzismo, antisemitismo e misoginia. Il più divertente riguarda l’«Autoritratto» della National Portrait Gallery nel quale si vede Hogarth mentre dipinge seduto su una sedia dell’epoca chiamata dagli antiquari «Hogarth chair», che si dice fosse caratteristica delle colonie britanniche in Nord America. Alla fine del commento di Sonia E. Barrett, leggiamo: «La sedia è fatta di un legno importato dalle colonie lungo gli stessi percorsi utilizzati dalle persone sottoposte a schiavitù. Forse la sedia rappresentava tutte le persone di carnagione nera o scura che tenevano in piedi la società che a sua volta sosteneva la creatività vigorosa di Hogarth».

A mio avviso e giustamente (è in forte crescita la comprensione del significato del postcolonialismo), in inglese si evita sempre di più la parola «schiavo», perché sembra quasi la descrizione di una professione anziché di un destino crudele, ma per il resto quel testo non ha niente a che fare con il quadro. In verità non conosciamo la provenienza del legno della sedia e ci sembra davvero poco probabile che all’epoca qualcuno riconoscesse in una sedia di quel tipo un’allusione all’America. Molti, leggendo testi come questo e tanti altri, si irritano oppure ridono (taluni piangono), ma il vero inconveniente è che quei testi sottraggono spazio a spiegazioni più utili. Un’altra curiosità di questi cartellini è che sono la spia del timore dei musei di presumere che tutti i visitatori dispongano di un minimo di cultura comune.

Tutti i luoghi di nascita degli artisti e le città dove hanno lavorato vengono accompagnati dal loro Paese, benché ci paia improbabile non sapere che Parigi è in Francia, che Venezia è in Italia e addirittura che Londra è in Inghilterra (gli autori sembrano aver dimenticato dove ci troviamo). Perfino un dinosauro come me ha capito che una delle gioie del mondo attuale è l’informazione che posso trovare su Google con l’aiuto di un telefonino. Al limite, forse è utile spiegare la parola «genere» come qui viene fatto, ma allora perché nella stessa scheda si omette di definire la «storia della pittura» che ha un significato molto preciso e nient’affatto ovvio? Povero Hogarth e poveri i suoi coetanei! Sono sempre colpevoli, tanto da non meritare mai neppure il beneficio del dubbio.

Finora potevamo immaginare che Hogarth in uno stupendo dipinto della Tate avesse rappresentato i suoi servitori con simpatia, ma qui insinuano che invece poteva essere un trucco di marketing per vantarne le qualità con futuri ricchi compratori… Allo stesso modo, il realismo di una meravigliosa «Pulce» di Giuseppe Maria Crespi non può essere una semplice osservazione della vita quotidiana, bensì una sorte di immagine pornografica per l’osceno diletto di uomini bianchi («White men», scritto con la «w» maiuscola più o meno come scriviamo «Nazi» con la «n» maiuscola).

La vera ambizione degli organizzatori e commentatori appare non tanto di condannare Hogarth e i suoi contemporanei, ma di esprimere un odio assoluto per i bianchi, maschi e privilegiati di oggi. Ostentano una certezza fanatica che siamo tutti, loro compresi, peccatori cacciati dall’Eden. Stranamente nella mostra non si parla quasi mai del fatto che Hogarth era un pittore comico o satirico e che molti dei suoi scherzi erano di pessimo gusto intenzionalmente. È vero per esempio che le persone di colore nelle sue opere vengono ritratte in maniera caricaturale, ma semplicemente perché tutti i personaggi delle sue opere sono rappresentati in modo grottesco.

Per fortuna possiamo goderci le opere esposte e capire quanto Hogarth meriti la nostra ammirazione per la sua varietà, per il suo sarcasmo e talvolta per la sua cattiveria. La simpatia che suscita il ritratto del grandissimo attore teatrale inglese David Garrick (1717-79) con la moglie (nelle collezioni della regina Elisabetta al castello di Windsor), come il fascino dei suoi cicli narrativi (soprattutto la serie «Marriage A-la-Mode» della National Gallery) sono tali che neppure le parole dei commentatori riescono a scalfirli. Prima di entrare in mostra c’è un avvertimento a tutela della nostra salute: alcune opere potrebbero urtare la nostra sensibilità. Ma nessun avvertimento ci avvisa di prepararci a resistere anche alla lettura dei cartellini della Tate.

© Riproduzione riservata
Altri articoli di David Ekserdjian