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Per ordinare la monografica di Salvatore Scarpitta (dal 2 dicembre al 17 febbraio), la galleria A arte Invernizzi si è avvalsa dello sguardo di un suo artista, il tedesco Günter Umberg, e dello storico dell’arte Luigi Sansone, curatore del Catalogo ragionato dell’artista americano. Allineando una trentina di opere chiave di Scarpitta, i curatori ne hanno ripercorso l’intero itinerario, dagli esordi al 1992.
Dopo le prime prove di segno materico-espressionista, nella seconda metà degli anni ’50 l’artista (New York 1919-2007, di padre siciliano) creò un linguaggio fatto dapprima di tele estroflesse (qui rappresentate da due «Senza titolo» del 1957), poi di bende e fasce in tensione, di cui la mostra esibisce alcuni esempi di grande valore. Un momento fondamentale, questo, nella ricerca dell’artista, che in quei lavori attiva l’idea di un’arte «astratto-reale», in cui si elude il processo mimetico per spostarsi sul piano della logica del «costruire».
Qui entrano in scena l’«Autoritratto» di bronzo, 1941, e, nella saletta successiva, le opere in legno che, richiamandosi ai multipli di bronzo esposti all’ingresso, mettono in connessione le opere presentate al livello superiore con quelle del piano inferiore, dove il grandioso «Gunner’s Mate», 1961, unico superstite dei lavori con più «Croci di sant’Andrea», è accostato a «X Core» e «Panciera», entrambi del 1959, in cui figurano le celebri X bendate.
Non mancano le «slitte» (qui due esemplari, 1989 e 1992), che alludono a un viaggio simbolico, oltre l’orizzonte, mentre la sequenza di fotogrammi di «Sal Is Racer», 1985, dove l’artista è in tenuta da pilota, rammenta la sua fortissima passione per i motori.
Un «Senza titolo» del 1957 di Salvatore Scarpitta. Cortesia di A arte Invernizzi, Milano
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