Una veduta della mostra «SuperBarocco. La forma della Meraviglia» (2022), Palazzo Ducale, Genova

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Una veduta della mostra «SuperBarocco. La forma della Meraviglia» (2022), Palazzo Ducale, Genova

Superbamente superbarocca

Giacomo Montanari racconta la mostra in corso nel Palazzo Ducale di Genova, tra opere che per decenni non rivedremo accostate

Parlando di Barocco genovese la prima cosa che viene in mente non è certo l’assolata costa della Florida. Eppure, nelle sale del Ringling Museum di Sarasota si trovano due tele straordinarie, che negli anni Venti del Seicento hanno visto imprimersi sul proprio lino i colori maneggiati con destrezza dal pennello d’un giovane pittore di Sarzana: Domenico Fiasella. Le due opere monumentali, transitate per l’arcinota collezione del marchese Vincenzo Giustiniani a Roma, sono adesso, dopo trent’anni esatti, tornate a Genova, ad aprire il percorso della mostra inserita nel progetto «SuperBarocco. La forma della Meraviglia», che sarà visitabile a Palazzo Ducale fino al 10 luglio.

Le due opere del Sarzana, nomignolo di Domenico Fiasella, sono però molto più che semplici «capolavori» dell’artista, ma rappresentano il lascito di un momento straordinario nella cultura figurativa d’Europa, che vedeva fondersi il naturalismo estremo ed eversivo di Michelangelo Merisi da Caravaggio, già declinato nella quotidianità vernacolare e bruciante di Jusepe de Ribera, e il monumentale classicismo introdotto da Carracci e portato ai più alti esiti da Giovanni Lanfranco, Domenichino e Guido Reni.

Un momento incredibilmente fecondo, non solo per Roma, ma anche per centri come Genova che, nella seconda metà del secolo precedente, avevano compiuto uno straordinario salto di qualità a livello politico ed economico. La centralità di Genova nella creazione della nuova «parlata» a livello artistico e culturale che avrebbe introdotto al Barocco e quindi al Seicento maturo è stata evidenziata in una centrale esposizione che prese vita proprio nel capoluogo ligure nel 1992: in un anno che rappresentò la rinascita della città come polo culturale e che pose le basi per la sua candidatura a Capitale Europea della Cultura (concretizzatasi nel 2004), «Genova nell’Età Barocca», curata da Ezia Gavazza e da Giovanna Rotondi Terminiello, rappresentò la concreta presa di coscienza di ciò che la Superba fu per l’Italia e per l’Europa durante e oltre il XVII secolo.

Da quel momento in avanti gli studi dell’Università e gli interventi della Soprintendenza, così come le indagini condotte nei Musei Civici, con la virtuosa creazione del Polo Museale di Strada Nuova, e statali (su tutti, le Gallerie Nazionali della Liguria di Palazzo Spinola di Pellicceria e la Galleria di Palazzo Reale) hanno permesso di celebrare esposizioni straordinarie per qualità, come «Van Dyck e Genova» (1997), «El siglo de los genoveses» (1999), «L’Età di Rubens» (2004), tutte ospitate nel Palazzo Ducale e divenute negli anni strumento di conoscenza e divulgazione della straordinaria storia artistica genovese in Italia e nel mondo.

Accanto a questa storia espositiva sono progrediti anche gli studi scientifici, confluiti in volumi ancora oggi punto di riferimento per chiunque cerchi le indispensabili chiavi di lettura del Barocco genovese: La pittura in Liguria, suddiviso nei due «capitoli» Artisti del primo Seicento (1986) e Il secondo Seicento (1990), curati rispettivamente da Franco Renzo Pesenti e da Ezia Gavazza, Federica Lamera e Lauro Magnani e il ricchissimo compendio della Scultura a Genova e in Liguria (1987-88).

Questo excursus storico critico, però, non è un semplice elenco di fatti: rappresenta la fatica conoscitiva che serve per dissodare la complessità di un contesto culturale di eccezionale importanza che, di fatto, era caduto nel dimenticatoio della critica artistica e della connoisseurship e a riportarlo al centro di un dibattito non solo locale, ma anche nazionale e internazionale. I Fiasella di Sarasota sono anche questo: l’occasione di ricucire le membra sparse della stagione barocca genovese, ospitata nei più prestigiosi musei del mondo, eppure ancora poco compresa nella sua centralità nel crogiuolo esplosivo del Seicento italiano.

Nella mostra di Palazzo Ducale, però, si colgono proprio alcune tracce di questa eccezionalità e di queste «influenze», inseguendole, come in una raccolta di exempla virtutis, tra molti e diversi artisti spalmati sui centocinquant’anni di storia che l’esposizione sottende. Nella sua vernacolare e umanissima finzione degna di una tela del giovane Diego Velázquez si staglia, ad esempio, la mesmerizzante opera di Giovanni Andrea De Ferrari proveniente dal Saint Louis Art Museum: pare quasi di poter sentire con le dita il velo d’umido essudato dalla giara ricolma d’acqua fresca, in primo piano, mentre un affannato Abramo s’affretta a servire gli angeli giunti a visitarlo.

Il naturalismo estremo di Giovanni Andrea è introdotto, nella sala precedente, da un dipinto inedito e straordinario di Bernardo Strozzi, affiancato alla più nota «Pala di Santa Sabina»: raffigurato a mezzo busto, un anziano Ercole tenta di tessere con ago e conocchia, mentre un rubizzo e ridanciano putto lo acceca, coprendogli gli occhi con le mani paffute. Alle sue spalle appare una dama vestita alla moderna, che certo allegorizza, nella raffigurazione eminentemente mitologica, la figura di Onfale. La divertita e spregiudicata pittura di Strozzi, nell’uso fuso e materico del colore a costruire corpi e oggetti, sottolinea con meravigliosa eloquenza la narrazione costretta e compressa in questa mirabolante opera. Raffinatissimo il sottile e sgargiante filo blu elettrico con cui l’ormai canuto eroe sta tessendo, che gli corre sul petto ignudo, eseguito con un singolo, vibrante e materico filamento di pasta cromatica.

Emblematico, poi, è il ritorno in pubblico di una clamorosa tela di Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto, eseguita al culmine della sua carriera per il Duca di Mantova, amata e posseduta da uno dei più consapevoli ed eccellenti collezionisti del Barocco ligustico: il genovese, purtroppo da poco scomparso, Aldo Zerbone. Nella lotta violenta degli accenti cromatici dell’ultramarino e del rutilante cinabro, Castiglione tesse incarnati terrosi e bruniti, con l’unica eccezione per il rosato morbido e delicato del bimbo in grembo alla Natura: prende così vita una delle più mirabolanti rappresentazioni delle Tre Età dell’Uomo, da parte di un artista così grande e geniale da aver potuto, nella Roma di Bernini e Cortona, lasciare un segno del tutto personale e ancora non completamente compreso e studiato.

Naturalmente non è tutto qui: la colossale (e inedita) tela di Jan Roos con l’«Entrata degli animali nell’Arca», documentata a Genova nel Settecento e ora finalmente riapparsa, mette bene in luce come la pittura spesso spregiativamente indicata come «di genere» potesse assumere proporzioni monumentali e toni altrettanto solenni di quella di carattere sacro.

E tra i fiamminghi, naturalmente, non manca Antoon van Dyck: se la loro madre, Elena Grimaldi Cattaneo, fa bella mostra di sé (al netto dei suoi quattrocento anni quasi esatti d’età) alle Scuderie del Quirinale nell’ambito dell’esposizione romana «gemella» di quella genovese (cfr. n. 426, mar. ’22, p. 61), a Palazzo Ducale si trovano i ritratti di Filippo e Maddalena Cattaneo, eternati dal Van Dyck ancora bambini e dipinti con un tale esasperato naturalismo pittorico, nella sintesi efficacissima delle sfaldate pennellate dell’artista, da essere «presenze» quasi inquietanti da guardare negli occhi. La storia di questi dipinti, poi, meriterebbe un romanzo a parte.

Ma tornando alla mostra e proiettandosi nella tuonante cavalcata che porta dal naturalismo di fine anni Trenta al trionfo clamoroso della metà del secolo e alla scuola barocca degli ultimi decenni tesi a travalicare il secolo verso l’internazionalità del linguaggio rocaille, non si possono non citare i nomi di Valerio Castello, di cui «I vasi delle Danaidi» di Palazzo Spinola Doria rappresenta un maturo ed emblematico capolavoro, Gioacchino Assereto, Anton Maria Vassallo, Bartolomeo Biscaino, Bartolomeo Guidobono, il Mulinaretto e, infine, la sintesi sublime, ironica e destrutturante di Alessandro Magnasco.

Un capitolo a parte meriterebbe la scultura. Non per quantità, bensì per qualità. La sola «Immacolata» di Filippo Parodi, normalmente confinata nella sacrestia di Santa Maria della Cella, avrebbe diritto a un’esposizione a sé stante. Un’opera che dimostra tutto l’onirico talento dello scultore genovese, distante dal rigore algardiano che invece trionfa nella tarda «Madonna Carrega» del marsigliese Pierre Puget che le sta esposta a fianco: nell’«Immacolata» Parodi scompiglia i capelli delle testine angeliche e monta la materia delle nubi da cui sbucano come panna densa e alabastrina, metamorfizzando corpo e vesti della Vergine in un gioco straordinario che lascia l’osservatore incerto sulla materia utilizzata, che ora par marmo, altrove avorio.

Decisamente fuori scala, anche in quanto a dimensioni, è il posto occupato da Anton Maria Maragliano, con una spettacolosa e appena restaurata «Madonna», circondata da monumentali santi francescani. L’estro di Nino Silvestri ha ridato vita e anima a questo legno intagliato e dipinto, segno di uno dei magisteri di più lungo e duraturo successo tra quelli nati in Liguria e che da questa terra presero il largo per la Francia, la Spagna e persino il Sud America.

A chiudere il percorso espositivo si trova, emblematicamente, la Cappella del Doge, uno tra i più belli e intatti spazi del Barocco genovese: qui Giovanni Battista Carlone, forse assieme alla raffinata progettazione prospettica di Giulio Benso, proietta l’osservatore (e anche i visitatori della mostra) tra la piana di Gerusalemme e il porto di Genova, in compagnia di Guglielmo Embriaco. Attraverso uno spettacolare loggiato che spalanca le pareti della sala, l’eroe della prima crociata guida da un lato le truppe di Goffredo di Buglione alla presa della Città Santa, dall’altro porta in patria le ceneri di san Giovanni Battista.

Dalla volta, domina sulla scena la Madonna Regina di Genova, echeggiata dalla settecentesca effigie marmorea posta sull’altare ed eseguita dallo scultore Francesco Maria Schiaffino. Uno spazio che dimostra significativamente come il Palazzo Ducale non sia (solo) un contenitore espositivo, ma un luogo centrale iconograficamente e artisticamente per la comprensione della Genova del XVII secolo.

In sintesi, la mostra di Palazzo Ducale, che con l’esperienza romana condivide il tris di curatori (Jonathan Bober, Piero Boccardo, Franco Boggero) è un viaggio intenso e serrato attraverso opere che difficilmente si ritroveranno (per almeno altri trent’anni) di nuovo faccia a faccia, costruendo dialoghi, percorsi e occasioni di scoprire e stupirsi della qualità altissima di un fenomeno, il Barocco genovese, degno di una capitale culturale che potè, come Roma, determinare il costruirsi di linee artistiche di rilievo e riferimento internazionale. 

Giacomo Montanari è Professore di Storia dell’Arte moderna nell’Università di Genova
 

La Cappella del Doge di Palazzo Ducale

Una veduta della mostra «SuperBarocco. La forma della Meraviglia» (2022), Palazzo Ducale, Genova

Una veduta della mostra «SuperBarocco. La forma della Meraviglia» (2022), Palazzo Ducale, Genova

Una veduta della mostra «SuperBarocco. La forma della Meraviglia» (2022), Palazzo Ducale, Genova

Una veduta della mostra «SuperBarocco. La forma della Meraviglia» (2022), Palazzo Ducale, Genova

«Cristo resuscita il figlio della vedova di Nain» (1612-15) di Domenico Fiasella. Ringling Museum of Art, Sarasota

Giacomo Montanari, 25 maggio 2022 | © Riproduzione riservata

Superbamente superbarocca | Giacomo Montanari

Superbamente superbarocca | Giacomo Montanari