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Stampa canta

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Franco Fanelli

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Per uno di quei paradossi molto italiani, il nostro Paese, a tutti i livelli «disattento» se non ignorante in fatto di grafica d’arte, annovera un cospicuo numero di biennali e altre manifestazioni dedicate all’arte dell’incisione contemporanea. Dal 1963 al 2006 è stato anche sede di una delle più importanti rassegne internazionali sul tema, il Premio Biella; oggi non mancano affollate associazioni di appassionati praticanti della calcografia e della xilografia. Il tutto a fronte non solo della predetta «disattenzione», ma anche di un mercato debole e di stamperie storiche costrette alla chiusura. Questo nonostante le iniziative e le splendide collezioni dell’Istituto Centrale per la Grafica di Roma, le ricerche in atto nelle Scuole di Grafica d’Arte delle Accademie di Belle Arti o l’attività di illustri studiosi: la stessa Barbara Jatta, nuova direttrice dei Musei Vaticani, è «nata» come specialista di grafica antica.

Una delle più note e stimate biennali dell’incisione è, da cinque edizioni, quella di Bassano del Grappa. Da quest’anno, in previsione della mostra che si terrà dal primo aprile al 21 maggio, la manifestazione cambia nome. Si chiamerà «Biennale dell’incisione, della grafica e dell’animazione contemporanea». È un evidente tentativo di ampliare il campo con produzioni presumibilmente più vicine al gusto contemporaneo. Ma questa idea di fare ricorso a un termine onnicomprensivo, «grafica», appunto, per proporre una mostra più «attuale» fornisce indirettamente una spiegazione del paradosso di cui si parlava. Perché va pur detto che, Bassano a parte (dove la mostra sino alla scorsa edizione si basava su una rigorosa selezione dei partecipanti), troppo spesso le biennali dell’incisione sono palcoscenici per virtuosi dilettanti tra i quali ogni tanto accade di trovare qualche malcapitato e stimato artista o qualche vecchio maestro.

Il linguaggio generalmente praticato, oltre all’ipertecnicismo, è un anacronistico e grottesco pastiche che ha trasformato l’identità espressiva della grafica d’arte in un vernacolo che, ovviamente, non trova udienza nel sistema espositivo e mercantile riconosciuto dell’arte contemporanea. Il monito di Goethe («la tecnica abbinata al cattivo gusto è la peggior nemica dell’arte») risuona in quelle sale e in quegli illustratissimi cataloghi. Tutto ciò ha ulteriormente ghettizzato l’incisione in Italia in una nicchia ancora più angusta e oscura di quella in cui già si dibatteva. È giusta dunque la strategia utilizzata a Bassano? In realtà, più che cercare di strizzare l’occhio al visitatore con disegni animati o grafica di varia estrazione, occorrerebbe non solo fare chiarezza sui termini, ma anche sulla specificità di un linguaggio alla luce di quel codice che gli conferisce espressione e inconfondibile identità, cioè la stampa. Altra cosa è l’animazione, altra la web art ecc.

Più della lingua italiana viene in soccorso l’espressione anglosassone secondo la quale l’artista che si esprime con la grafica d’arte è soprattutto un «printmaker». Questo dovrebbe essere ben noto in una città sede del Museo Remondini, consacrato alla stampa, ma anche a certi curatori i quali, allargando lo sguardo verso l’attualità, scoprirebbero che la grafica d’arte a stampa sta attraversando un periodo di fioritura internazionale animata dai grandi artisti che la praticano, da Richard Serra a Christiane Baumgartner, da Georg Baselitz a Vija Celmins: artisti, appunto, che utilizzano la grafica d’arte, anche nelle sue tecniche più aggiornate e senza assurdi fondamentalismi, non come un fine (vizio capitale dei dilettanti) ma come un mezzo o meglio un’espressione.

Ne offrirono un saggio le ultime due edizioni del citato Premio Biella. Ma altri, vivacissimi segnali di questa rinascita vengono anche dalle sempre più numerose stamperie e case editrici d’arte giovani e indipendenti diffuse in tutto il mondo, luoghi dove si elaborano i segni del presente e del futuro.  In passato un cattivo utilizzo dei termini e delle definizioni causò una gravissima crisi del mercato della grafica, quando banali fotoriproduzioni di dipinti venivano spacciate per opere grafiche «originali». Perché dunque pasticciare ulteriormente, nel nome del minestrone «grafica», confondendo la già labile cultura specifica dei visitatori? Carta canta, è il caso di dirlo. E lo conferma, se ce ne fosse bisogno, la presenza di un giovane artista noto per le sue raffinate photogravure, Salvatore Arancio, tra i sei artisti italiani invitati alla mostra centrale della prossima Biennale di Venezia.

Franco Fanelli, 13 marzo 2017 | © Riproduzione riservata

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