Dall'alto a sinistra: Rica Cerbarano, Arianna Rinaldo, Raffella Perna, Monica Poggi, Federica Ciocchetti ed Elisa Medde

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Dall'alto a sinistra: Rica Cerbarano, Arianna Rinaldo, Raffella Perna, Monica Poggi, Federica Ciocchetti ed Elisa Medde

Sei protagoniste multidisciplinari e trasversali

Prevalgono le donne nella nuova leva di critici e curatori di fotografia: Raffaella Perna, Monica Poggi, Rica Cerbarano, Arianna Rinaldo, Federica Chiocchetti ed Elisa Medde raccontano la loro esperienza

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Arianna Antoniutti

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Critica e curatela della fotografia possono essere praticate secondo prospettive differenti: chi opera, ad esempio, in un contesto museale avrà diverse priorità rispetto al curatore indipendente. Ma, al di là dei diversi ambiti professionali, a unire la nuova generazione di critici e curatori sembrano esservi alcune parole chiave e tendenze.


Raffaella Perna (Roma 1982)
Insegna all’Università di Catania, è componente del centro di ricerca «Fotografia Arte Femminismo. Storia, teorie e pratiche di resistenza nella cultura visiva contemporanea» dell’Università di Bologna, parla del legame fra l’attività curatoriale e l’ambito accademico. «È una connessione molto forte, le mostre che curo il più delle volte le intendo come una naturale prosecuzione delle ricerche avviate a livello universitario. Dal punto di vista metodologico cerco sempre di partire, sia per l’arte sia per la fotografia, da materiali documentari, attingendo anche, quando c’è la possibilità, dalle fonti orali. Ogni esposizione è un caso a sé e dipende molto dal confronto con le istituzioni di volta in volta interessate».

Nella pratica curatoriale contemporanea, avverte un’attenzione a nuove istanze culturali?
C’è uno spostamento dello sguardo, che si rivolge ora a capitoli meno esplorati sia in termini di singole soggettività sia di episodi culturali. Per me è fondamentale veicolare queste tematiche nelle mostre che curo. Se le quote rosa non sono altro che una banalizzazione del problema, è altrettanto evidente che esistono delle discrepanze, delle asimmetrie anche numeriche, ad esempio, la presenza delle donne artiste nei musei. Le istituzioni italiane devono ragionare su questo. Se negli ultimi dieci anni l’interesse per la tematica è cresciuto, dal punto di vista degli effetti pratici, il risultato non è ancora conseguente.


Monica Poggi (Bologna 1991)
Responsabile mostre presso Camera-Centro Italiano per la Fotografia di Torino, per lei l’attenzione alle dinamiche di inclusione e di partecipazione «non è una bandiera che si espone con lo scopo di stare dalla parte giusta della storia. È realmente presente la volontà di essere più oggettivi sulla molteplicità di voci che occupano il panorama artistico. Credo che ciò avvenga non tanto in contrapposizione con i curatori delle generazioni precedenti, quanto con la società in cui essi operavano e che rispecchiava un mondo più escludente».

Come nasce un progetto curatoriale a Camera?
A monte c’è una programmazione che ha l’obiettivo di fornire una panoramica sulle tante possibilità della fotografia, attraverso personali e monografiche di autori del passato e contemporanei. Gli artisti emergenti, grazie al progetto «Futures», sono uno dei grandi punti di interesse di Camera. In questa linea di indirizzo entrano gli incontri e le coincidenze di cui sono fatte le mostre. L’allestimento è un aspetto fondamentale nella nostra proposta espositiva. Attraverso di esso offriamo al pubblico delle possibilità di lettura sulle opere esposte. Nonostante Camera sia una fondazione privata, svolgiamo un servizio culturale pubblico, ci rapportiamo a una platea non necessariamente specialista. Accogliere le esigenze di un pubblico composito è una parte importante del nostro lavoro.


Rica Cerbarano (Torino 1992)
Membro del comitato di direzione artistica di PhotoLux, e dal 2017 exhibition manager del festival Cortona on the Move, nella sua attività ritiene fondamentale la contaminazione con altre discipline. «Soprattutto con il collettivo Kublaiklan, fondato nel 2017 con altri professionisti, cerco di guardare oltre la fotografia, toccando tutto quello che gravita intorno a questo mondo: grafica, architettura, design. La tendenza diffusa è di non accontentarsi di ciò che viene considerato mainstream, ma di ricercare in tutti i sensi e in tutte le direzioni, sia a livello tematico sia geografico. Evitando le categorie consuete, vengono indagati temi come identità di genere, inclusività e accessibilità».

Quali sono le caratteristiche curatoriali di un festival di fotografia?
Penso a Cortona, festival in cui sono cresciuta professionalmente accanto ad Arianna Rinaldo, una manifestazione molto connotata dal punto di vista degli spazi. È essenziale, in simili contesti, instaurare un dialogo con il luogo ospitante ma anche con gli abitanti, in modo che il festival sia avvertito come una presenza forte all’interno della comunità. Altra caratteristica è il maggiore grado di sperimentazione rispetto a quanto possa offrire un’istituzione museale, che solitamente ha una programmazione dai tempi più lenti e riflessivi. Un festival può offrire una risposta immediata rispetto a quanto accade nel mondo della fotografia, anche a livello di sviluppo del linguaggio fotografico.

Arianna Rinaldo (Vimercate 1971)
Libera professionista, spazia dall’editing fotografico alla curatela di mostre e progetti editoriali, all’insegnamento. «L’interesse per l’evolversi della fotografia è da sempre alla base della mia ricerca. Prima come direttrice dell’archivio di Magnum Photos (1998-2001), poi come photo editor della rivista “Colors”, sono passata dal fotogiornalismo più classico a un codice completamente differente. Il linguaggio della fotografia è infinito, una stessa storia può essere raccontata in modi molto diversi. La mia esperienza con phEST (festival internazionale di fotografia e arte di Monopoli, di cui curo da sei anni la sezione fotografica), e con Cortona on the Move, che ho diretto dal 2012 allo scorso anno, mi ha portato a contatto con un pubblico molto ampio, diverso dai fruitori di una galleria privata o di un museo. In un festival c’è la necessità di arrivare anche agli altri sensi, non solo all’occhio.

L’evento appena concluso di “Cortona On The Move AlUla” è stato esemplare in questo senso. Assieme alla curatrice saudita Kholood AlBakr abbiamo portato ad AlUla, sito Unesco dell’Arabia Saudita, nove artisti dal festival di Cortona e nove dalle regioni arabe. Lì, nel deserto, mi sono sentita a casa, in un ambiente che, lontano dalla compiutezza museale, mi ricordava Cortona. Tra le foto esposte nei cortili e lungo i muri un’immagine di Simon Norfolk mostra lo scioglimento di un ghiacciaio svizzero: ha creato un impatto fortissimo, innescando una riflessione su un tema ambientale che da sempre mi sta molto a cuore
».

Federica Chiocchetti (Lucca 1983)
Curatrice indipendente, scrittrice ed editor, con la piattaforma Photocaptionist ha dato forma alla sua «passione e ossessione per il rapporto tra fotografia e letteratura, un contrasto a volte amoroso, a volte ostile fra le due discipline. Ho immaginato Photocaptionist, che esiste e opera sia online sia offline, come un luogo nel quale esplorare, con approccio anche ludico, l’universo del fototesto. Ciò avviene attraverso due sezioni: “Compositions” e “Cornucopia”. Nella prima, più sperimentale, io stessa e artisti, critici, scrittori, creiamo montaggi foto-letterari accompagnati da brevi testi, nella cui intersezione si fa spazio la soggettività del lettore. “Cornucopia”, invece, è un cabinet di curiosità foto-letterarie che offre molteplici contenuti.

Fare sistema è fondamentale, sia per la piattaforma non profit sia per la mia attività di curatore indipendente. Collaborazioni con musei e istituzioni come Photographers’ Gallery, The Eyes, V&A, Foam, Pro Helvetia sono vitali, spesso è più facile creare questa rete di cooperazione all’estero che in Italia. Il mestiere di curatore si nutre di relazioni e di confronti, curare una mostra è raccontare una storia con degli oggetti nello spazio: sono necessarie competenze di architettura e di scrittura, capacità di immaginazione in termini di allestimento e di creazione di un percorso di navigazione attraverso le opere. È necessario sapere indossare molte maschere
».

Elisa Medde (Nuoro 1981)
È direttrice dal 2012 di «Foam», pluripremiato magazine edito dal Foam Fotografiemuseum di Amsterdam, che nel 2017 e nel 2019 si è aggiudicato il Lucie Award «magazine of the year».

Come nasce un numero di «Foam»?
È un magazine tematico: scelto un soggetto, cerchiamo di individuare le parole che lo definiscono. È un lavoro semantico che produce collegamenti, domande, mappe visive, quasi una trasposizione del metodo warburghiano nella modernità. In questo i miei studi di arte antica e iconologia sono stati fondamentali. L’impostazione di «Foam» è divulgativa, non siamo una pubblicazione accademica, cerchiamo di essere accessibili, ma senza semplificare ciò che per sua natura è complesso. Sebbene la nostra visione di partenza sia inevitabilmente eurocentrica, svolgiamo un lavoro profondo e costante di smantellamento di questa identità. «Foam», in sinergia con il lavoro svolto dal Museo, è un alambicco che distilla tutti gli elementi che vi confluiscono. Penso a temi come il cambiamento climatico, la giustizia sociale o l’appropriazione culturale, ancora poco percepito in Italia. Nei giovani artisti, c’è una libertà e un approccio sperimentale nell’affrontare questi soggetti che, in passato, sarebbero stati letti solo attraverso la lente della fotografia documentaria. È la liberazione da un’etichetta e da una gabbia che produce poesia ed espansione, come avviene ad esempio nei lavori dell’italo-togolese Silvia Rosi o del fotografo italo-marocchino Karim El Maktafi.

Dall'alto a sinistra: Rica Cerbarano, Arianna Rinaldo, Raffella Perna, Monica Poggi, Federica Ciocchetti ed Elisa Medde

Arianna Antoniutti, 18 aprile 2022 | © Riproduzione riservata

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