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Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliChissà come avrebbe vissuto, Mario Schifano, i periodi di lockdown cui siamo periodicamente sottoposti a causa del perdurare della pandemia? Forse i monitor dei televisori perennemente accesi nel suo studio si sarebbe moltiplicati, ora che, rispetto ai suoi anni, i canali di trasmissione si sono moltiplicati. Sono riflessioni a cui sarà portato il visitatore della mostra «Panorama», aperta fino al 23 maggio (e forse oltre) nello Studio Raffaelli.
Qui una parete intera della galleria è gremita di 130 fotografie scattate dall’artista (1934-98) agli schermi dei suoi televisori. Nello spazio di 10x15 cm Schifano interveniva su quelle immagini con la sua pittura. Già nel ’69 l’artista fa della convivenza con l’immagine mediatica prodotta dal tubo catodico una sorta dimodus vivendi e operandi (negli anni Settanta nascono i celebri «Paesaggi TV»).
Lo fa mentre si apre uno dei periodi più tormentati di una vita che romanticamente viene spesso definita caravaggesca. Ma al di là delle tangenzialità esistenziali, il «caravaggismo» di Schifano va forse ricercato nella coscienza della crisi dell’immagine codificata e convenzionale (e nel confronto con essa) come condizione necessaria allo svolgersi della pittura moderna.
Anche per Schifano, uno degli ultimi eredi della grande pittura italiana (in mostra anche alcune carte e tele dagli anni Sessanta agli anni Novanta) il punto chiave era la luce. E se, come si dice, in pittura ogni secolo ha la sua luce, quella del secondo ’900 non poteva che essere la luminosità artificiale ed elettronica: così, dalla crisi, nasceva un’anticipazione. Anzi, ora che lo smartworking ci inchioda al desktop dei nostri pc, una premonizione.
«Senza titolo», anni ’90. Cortesia Studio d’Arte Raffaelli
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