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Rifugi e metamorfosi

Federico Florian

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Continua propone sino al 3 settembre una tripla personale. Ne sono protagonisti Hans Op de Beeck, Ilya & Emilia Kabakov e Carlos Garaicoa

All’insegna del conforto e del pensiero rassicurante è la mostra dell’artista belga (1969) Op de Beeck («Small Things and Soothing Thoughts»), la sua quinta in galleria. È esposto un mondo congelato, silenzioso, composto da sculture monocrome grigie a grandezza naturale, raffiguranti persone in pose introspettive, con occhi chiusi. Un giovane dall’aspetto fragile, con i piedi scalzi e i pantaloncini, tiene in mano una decina di more appena raccolte; una bambina gioca con un pezzo di corda all’interno di una figura geometrica; una giovane donna giace assorta su un fianco, mentre fuma una sigaretta. Tra queste figure si ergono tavole rotonde scolpite (nature morte contemporanee fatte di bicchieri, scatole per pizza, candele spente, libri aperti e telefoni cellulari). Un surreale e consolante microcosmo: come afferma l’artista, «il piccolo gesto, il momento di silenzio e il pensiero rassicurante sono di estrema importanza per compensare abomini eticamente incomprensibili». Implicito il riferimento ai recenti attentati terroristici di Bruxelles, città dell’artista. 

Noti per le loro «installazioni totali», apparati visuali dal sapore narrativo, contenenti pittura, architettura, cinema e scenografia, i coniugi Kabakov (l’ottantatreenne Ilya e la settantunenne Emilia), ucraini espatriati a New York, espongono una serie di lavori, alcuni storici, altri recenti. Tra le installazioni in mostra «I Want to Go Back! (Reverse)», un’imponente figura femminile la cui ampia gonna ottocentesca nasconde un mondo favolistico, e «I’ll Return on April 12...», che racconta la storia di un uomo che si libra nel cielo. Ricorrente il tema di un’infanzia idealizzata, «quella fase perfetta della vita dove si conosce solo pace e felicità». Nel giardino di Continua si erge «The Arch of Life», lavoro esposto un anno fa alla Echigo Tsumari Triennale di Niigata: cinque sculture, tra cui una testa che nasce da un uovo e una figura a quattro zampe con una minacciosa maschera di leone, rappresentano le diverse fasi dell’esistenza umana.

Il cubano Carlos Garaicoa (1967) i cui lavori esplorano la città percepita e immaginata, presenta in galleria tre nuove serie di opere, due delle quali («Witness» e «The Roots of the World») danno il titolo all’esposizione. Mentre la prima è composta da disegni di paesaggi eseguiti a grafite e frottage, la seconda, un’installazione, gioca sulla dialettica costruzione-distruzione, declino e rinnovamento. Un ultimo lavoro completa la personale: una casa in disfacimento, in cui travi di legno marcite, scavate dagli insetti, si alternano a frammenti e rovine. «Dall’interno di questo covo organico, spiega l’artista, emerge una serie di corpi ibridi, le termiti, che dopo essersi nutrite di architettura hanno finito per trasformarsi in edifici mobili». Vi è una metamorfosi in corso: «Le teste delle termiti sono diventate città che si autocostruiscono e si autodivorano».

Federico Florian, 15 giugno 2016 | © Riproduzione riservata

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