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«Computer Aid» (2015), di Ignacio Acosta. © Ignacio Acosta

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«Computer Aid» (2015), di Ignacio Acosta. © Ignacio Acosta

Quanto inquina una fotografia?

Una mostra al Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo svela l’impronta ecologica della produzione di immagini in un excursus storico

Rica Cerbarano

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Se chiediamo a qualcuno di associare le parole «cambiamento climatico» e «fotografia», è facile prevedere che tipo di immagini si formeranno nella sua mente. Paesaggi dell’Artico completamente rimodellati, foreste avvolte nelle fiamme, alluvioni e tempeste che mettono a soqquadro interi villaggi e città; in sostanza, scatti che documentano le conseguenze della crisi climatica. La fotografia documentaria arriva a conti fatti, quando ciò che doveva accadere è già accaduto. Si limita a testimoniare gli effetti del riscaldamento globale, la cui portata rimane curiosamente intangibile: ciò che vediamo sono i suoi risultati, ma non le sue cause.

Il modo in cui la crisi climatica viene raccontata e rappresentata dai media di informazione influisce enormemente su come la percepiamo e sul grado di coinvolgimento che proviamo osservandola; si è detto spesso che la fotografia «risponde all’emergenza climatica» attraverso il lavoro di fotografi e artisti che ne denunciano l’entità e, sensibilizzando l’opinione pubblica, ci invitano ad agire. Ma è davvero così? O meglio, ci sono modi alternativi di inquadrare visivamente (e quindi percettivamente) il fenomeno? Le immagini di cronaca che vediamo ogni giorno sono sufficienti per comprendere davvero le sfide della lotta contro il cambiamento climatico?

La mostra «Mining Photography - L’impronta ecologica della produzione di immagini», visitabile presso il Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo (MK&G) fino al 31 ottobre, sembra offrire una prospettiva diversa a tal riguardo. Curata dall’artista e curatore Boaz Levin e dalla dottoressa Esther Ruelfs, direttrice della Collezione di Fotografia e Nuovi Media del MK&G, l’esposizione si sofferma sulla storia materiale delle risorse utilizzate per la realizzazione di immagini fotografiche, raccontando il contesto sociale e politico della loro estrazione e svelando la posizione della fotografia nella rete di rapporti causa-effetto che regolano il sistema capitalista da cui dipendono le emergenze ambientali in corso.

Attraverso 170 fotografie (tra cui immagini storiche e lavori contemporanei, come quelli di Ignacio Acosta, Lisa Barnard, Tobias Zielony, Alison Rossiter) e interviste con personalità e voci autorevoli (la conservatrice Susan M. Barger, il biologo Hans Joosten, l’attivista Hannah Pilgrim, il chimico Rainer Redmann, la minerologa Katrin Westner e la storica dell’arte Katherine Mintie), «Mining Photography» racconta la storia della fotografia come una storia di produzione industriale, e dunque materialmente e ideologicamente implicata nel processo di innalzamento delle temperature.

Inquadrando la crisi climatica non come una «catastrofe naturale» o qualcosa che sta accadendo in un lontano «altrove», ma piuttosto come uno sconvolgimento antropico, legato a un’epoca storica specifica (definita da alcuni «Antropocene» e da altri «Capitalocene»), l’esposizione vuole dimostrare che per rappresentare meglio il fenomeno sia necessario riconoscere come i mezzi di rappresentazione a noi più familiari siano enormemente implicati nelle dinamiche che sottendono all’economia capitalista, la quale si fonda sull’estrazione e il trattamento delle risorse naturali.

Lo studio dei materiali alla base del processo fotografico (dal rame, l’argento, il sale e l’oro agli albori della fotografia, fino alle terre rare e metalli come il coltan, il cobalto e l’europio nell’odierna era digitale) fornisce la conferma che lo sviluppo del mezzo è sempre dipeso dal commercio globale di materie prime e dallo sfruttamento umano e ambientale.

La rapida proliferazione che il mezzo fotografico ebbe tra gli anni ’40 e ’50 del XIX secolo sarebbe stata inconcepibile senza i combustibili fossili, l’espansione coloniale e lo sfruttamento dei minerali. Oggi, dopo quasi due secoli, la gestione dei dati in cloud (sebbene pubblicizzata come la creazione di una «nuvola» effimera e virtuale) è altrettanto inquinante: i sistemi di archiviazione producono infatti emissioni di carbonio in continua crescita, che causano danni ambientali e pongono rischi crescenti per la salute.

Questi sono solo alcuni dei temi trattati dalla mostra (e dal catalogo omonimo pubblicato da Spector Books) che, attraverso una presa di posizione coraggiosa, denuncia apertamente l’impronta ecologica della fotografia, invitandoci a riconsiderare il modo in cui ci relazioniamo ad essa nel contesto di una realtà sempre più fragile.

«Computer Aid» (2015), di Ignacio Acosta. © Ignacio Acosta

Rica Cerbarano, 28 settembre 2022 | © Riproduzione riservata

Quanto inquina una fotografia? | Rica Cerbarano

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