Il Collegio Romano, sede del MiC

Image

Il Collegio Romano, sede del MiC

Quanto conta la Cultura per Meloni

Dalla scelta del ministro dipenderà il valore che la leader di Fratelli d’Italia attribuisce alla Cultura

Image

Daniele Manacorda

Opinionista Leggi i suoi articoli

Al Ministero della Cultura si preannuncia quello che alcuni considerano come un cambiamento epocale, altri un normale avvicendamento politico al vertice dell’Amministrazione della cosa pubblica. Una volta che si convenga che il sostegno alla ricerca è la spina dorsale del futuro di ogni Nazione progredita; che la tutela del patrimonio storico è un dovere che abbiamo verso ciascuno di noi e le generazioni future; e che la sua valorizzazione è la strada maestra che ne permetterà la conservazione nel tempo, appare chiaro che i termini destra, centro e sinistra non descrivono fedelmente i temi sul tappeto e le soluzioni a disposizione.

Questo non significa che il cambiamento non sia in qualche misura epocale. I tempi della politica sono purtroppo cortissimi, spesso malamente giocati sul presente, e gli 8 anni di Dario Franceschini (2014-18 e 2019-22, con una scialba parentesi) sembrano un’eternità, anche perché hanno lasciato il segno. La lunga stagione dei suoi due Ministeri ha lasciato un segno positivo nella sua prima fase, quella riformatrice, portata avanti con determinazione. L’autonomia dei musei ha recato frutti evidenti, forse al di là delle aspettative, e va difesa e anzi sviluppata. La riforma delle Soprintendenze le ha fornite degli occhiali per guardare finalmente al nostro patrimonio culturale con gli occhi del XXI secolo.

E non è un caso se quelle riforme hanno incontrato forti opposizioni, specie all’interno dell’Amministrazione stessa, fisiologicamente timorosa del nuovo. Ma poiché ogni vera riforma va sempre accompagnata nel tempo, i suoi frutti hanno tardato di più a manifestarsi, anche perché nel suo secondo ciclo, esaurita «la spinta propulsiva», il Ministero è entrato in una fase di stagnazione, tanto che, abbandonate le riforme, è apparso il rischio di un’involuzione.

E il peso dei problemi eterni torna a farsi sentire. L’emergenza infatti è sempre la stessa: la mancanza di personale a tutti i livelli, e in modo acutissimo nei quadri tecnici. I concorsi programmati rischiano di non colmare neppure i vuoti prodotti dai pensionamenti. Certo, il problema nella Pubblica Amministrazione è strutturale e andrebbe affrontato nel suo insieme, magari scaglionando nel tempo l’uscita dai ruoli, scalando l’impegno lavorativo di chi deve andare in pensione, favorendo così il trasferimento del know how da chi esce a chi entra.

Se la carenza di personale frena la capacità di intervento e spunta le armi della nuova organizzazione, resta l’elefantiasi di un numero spropositato di direzioni generali poco dialoganti e di una organizzazione verticistica che consuma molte energie nei farraginosi rapporti fra centro e periferia. L’enfasi, comprensibile e in sé utile, sui grandi luoghi del patrimonio, attrattori di turismo e moltiplicatori di iniziative culturali, lascia in ombra il problema della gestione del patrimonio diffuso, sottoutilizzato e talvolta abbandonato.

Se prendiamo atto della impossibilità di gestire con un’unica forma un patrimonio così diffuso, il Codice Urbani, quello dei contratti pubblici, quello del terzo settore indicano una pluralità di strade per nuove forme di gestione, capillarmente costruite in collaborazione con le comunità e i soggetti privati attivi in tutto il territorio nazionale. Se c’è un debito buono e uno cattivo, ci sarà anche un sovranismo cattivo e uno buono, che è quello che dà fiato al principio costituzionale di sussidiarietà. Tradotto significa che la gestione di pezzi di patrimonio da parte delle forze vive presenti nella società, affiancate e monitorate dallo Stato, è la strada per allargare enormemente il novero dei «conservatori» del patrimonio e ridurre la distanza tra Stato e cittadino.

Analogamente occorre allargare la base dei soggetti che concorrono (facendo ricerca) alla conoscenza del patrimonio e quindi alla sua condivisione. La radicale riforma dell’art. 88 del Codice Urbani, che regola in modo autoritario le concessioni di scavo, non è una privata richiesta di un sodalizio di archeologi: è la presa d’atto che tutte le energie del Paese, tanto più se operanti nel pubblico come le Università, devono essere mobilitate, non frustrate, per un grande progetto di conoscenza, salvaguardia e valorizzazione. Per questo la cooperazione tra i Ministeri della Cultura e dell’Università dovrebbe diventare strutturale.

La tanto auspicata piena liberalizzazione dell’uso commerciale delle immagini del patrimonio culturale pubblico, richiesta a viva voce in questi ultimi anni, è negata da un pessimo articolo dello stesso Codice Urbani (art. 108). Finora sono state vane le richieste di superare una visione mercantilistica del patrimonio (in perdita economica e costituzionalmente sospetta), che penalizza la creatività sociale e non aiuta il Ministero della Cultura a operare in sintonia con il Paese reale. Mano pubblica non significa agire in contrapposizione al cittadino, ma in sua rappresentanza, nel rispetto di norme condivise ma in necessaria continua evoluzione (nel Codice Urbani, nonostante abbia solo 18 anni, l’Europa semplicemente non esiste).

Per quasi mezzo secolo il Ministero della Cultura, con le sue diverse denominazioni, ha avuto al vertice nomi di grande spicco, ma anche scialbe figure di cui non resta ricordo. Al momento non sappiamo se il titolare del Dicastero lo considererà, come tante volte detto da Franceschini, il Ministero economico più importante, o se lo declasserà a quella serie B in cui ha militato per tanti anni. Come sempre, la differenza la farà anche la qualità delle persone, quali che siano gli ideali di riferimento.


Il segno che ha lasciato Franceschini
Non è facile sintetizzare 8 anni di progetti e iniziative, caratterizzati da grandi consensi ma anche da forti dissensi. Ecco una lista di quanto fatto da Dario Franceschini, ministro per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo nei governi Renzi e Gentiloni, dal 22 febbraio 2014 al primo giugno 2018, e nel governo Conte II dal 5 settembre 2019 al 13 febbraio 2021. Nel governo Draghi la delega al Turismo viene affidata ad apposito Ministero e il Mibact cambia il nome in MiC, Ministero della Cultura.

• La Riforma dei musei, con l’istituzione dei musei e dei parchi archeologici autonomi, affidati a direttori selezionati attraverso una procedura pubblica internazionale, e delle Direzioni regionali Musei

• La prima domenica gratuita per i musei

• Soprintendenza unica, con l’accorpamento delle funzioni di tutela del patrimonio culturale e del paesaggio e redistribuzione delle Soprintendenze sul territorio nazionale

• Rafforzamento del «soft power» italiano attraverso l’esercizio della diplomazia culturale, con il rientro in Italia di numerose opere trafugate e l’organizzazione di importanti vertici internazionali: il summit dei Ministri della Cultura di Milano a Expo 2015; il G7 Cultura di Firenze; il G20 Cultura di Roma; il MedCulture di Napoli

• L’istituzione dei Caschi blu della Cultura

• L’introduzione dell’ArtBonus, agevolazione fiscale per chi investe in cultura

• La creazione della Direzione Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane (2014), ora Direzione Generale Creatività contemporanea (2019)

• La nuova attenzione per l’arte del fumetto, in particolare grazie al progetto «Fumetti nei musei» e il bando promozione fumetto

• Il Bonus Cultura per i neomaggiorenni attraverso la 18App

• Il Fondo per il Patrimonio e il Piano Strategico Grandi Progetti Beni Culturali

• Matera Capitale Europea della Cultura 2019

• L’istituzione delle Capitali italiane della Cultura e delle Capitali italiane del Libro

• Il «modello Pompei», da vergogna planetaria a esempio di utilizzo dei fondi europei

• Il bando delle «grandi navi» dalla Laguna di Venezia

• 6,5 miliardi di euro per il Pnrr, record europeo per la cultura, con il Piano Nazionale Borghi, il rilancio di Cinecittà, il potenziamento della Biennale di Venezia,
il recupero di parchi e giardini storici, dell’edilizia rurale e delle chiese del Fec

• La riforma del Fus (Fondo unico per lo spettacolo), con l’erogazione triennale dei fondi e l’apertura ai nuovi generi quali il jazz, la musica popolare e i live club

• La nuova Legge Cinema e il Fondo Cinema, con tax credit potenziato e permanente

• Il Nuovo Welfare per i lavoratori dello spettacolo

• Il Museo dell’arte salvata (Roma) e il Museo dell’arte digitale (Milano)

• Il bonus facciate

Il Collegio Romano, sede del MiC

Daniele Manacorda, 10 ottobre 2022 | © Riproduzione riservata

Articoli precedenti

Il vero problema sembra essere la nuova (vecchia) organizzazione per Dipartimenti, già varata ai tempi del ministro Buttiglione e presto abbandonata non per motivi politici, ma perché ritenuta non adeguata a un Dicastero come quello della Cultura, capillarmente distribuito sul territorio

Uno conserva le fattezze gioviali di una visione che un tempo chiamavamo progressista, ma identifica «statale» con «pubblico», l’altro è nostalgico dello «Stato etico» ottocentesco

Che senso hanno gli apprezzabili richiami del ministro a Benedetto Croce se poi i suoi atti vanno in una direzione opposta, così palesemente illiberale?

Negli ultimi mesi le parole del ministro Sangiuliano avevano fatto ben sperare, ma a gennaio è giunto l’Atto di indirizzo che indica le priorità politiche. E qui la montagna ha partorito il topolino

Quanto conta la Cultura per Meloni | Daniele Manacorda

Quanto conta la Cultura per Meloni | Daniele Manacorda