Image

Archivio Centrale dello Stato. Foto Lalupa

Image

Archivio Centrale dello Stato. Foto Lalupa

La riforma del MiC secondo gli esperti. Daniele Manacorda: «A che cosa serve cambiare»

Il vero problema sembra essere la nuova (vecchia) organizzazione per Dipartimenti, già varata ai tempi del ministro Buttiglione e presto abbandonata non per motivi politici, ma perché ritenuta non adeguata a un Dicastero come quello della Cultura, capillarmente distribuito sul territorio

Image

Daniele Manacorda

Opinionista Leggi i suoi articoli

Le riorganizzazioni dei Ministeri non appassionano l’opinione pubblica e trovano spazio nei media solo se hanno risvolti politici significativi; ma accendono discussioni e timori negli addetti ai lavori, dentro e fuori la Pubblica amministrazione. Nel caso della recente riforma voluta dal ministro Sangiuliano, chi volesse leggere i 40 articoli del Dpcm appena varato dovrebbe farlo scevro da preconcetti, ma guidato da due semplici domande: perché si è deciso di fare questa riforma? Si starà meglio o peggio?

Salta agli occhi (e ha un valore politico) che il provvedimento non smantella la «Grande Riforma» del primo dicastero Franceschini (quella che tra mille polemiche aveva introdotto le Soprintendenze uniche e i musei autonomi). C’è da esserne contenti visto che le due riforme stanno dando buona prova di sé, pur con tutti i limiti che furono messi in luce nel corso della loro faticosa attuazione. Insomma, le Soprintendenze restano unificate (se Dio vuole) e i musei autonomi crescono di numero, quasi (si direbbe) eccessivamente. Infatti una vera autonomia avrebbe bisogno anche di una massa critica di patrimonio, strutture e personale che non tutti i nuovi «promossi» hanno (il personale, peraltro, resta incardinato al centro e quindi l’autonomia non può che restare strutturalmente zoppa).

Diciassette nuovi musei autonomi implicano una moltiplicazione di funzioni difficili da coprire senza un piano di organizzazione delle risorse umane in un Ministero che è ampiamente sotto organico. Passi avanti: con l’abolizione dei Segretariati regionali (punto debole della riforma Franceschini) e con il ristabilimento di una gerarchia funzionale tra i capi delle strutture dipartimentali e i direttori dei musei autonomi, anche per i posti di prima fascia. In un Ministero dove i pari grado in ruolo si sono spesso sottratti all’indirizzo di chi svolge funzioni gerarchicamente superiori (con conseguente immaginabile disordine operativo) ristabilire una catena di comando chiara e rispettata è un buon segnale, purché non serva a umiliare le autonomie (cioè a svuotarle di senso).

Il Dipartimento per l’Amministrazione generale introduce una Direzione generale Affari europei e internazionali che dovrà conciliare i suoi compiti con la circolazione internazionale delle opere d’arte, la quale vede come primi referenti gli Uffici esportazione incardinati nelle Soprintendenze. Quindi in un altro Dipartimento. E prevede una Direzione generale Digitalizzazione e comunicazione che ha anche il compito di curare la comunicazione istituzionale, auspicabilmente senza deprimere le autonome iniziative degli istituti periferici. Il Dipartimento per la tutela, cui afferiscono la Direzione Archeologia, Belle arti e Paesaggio e la Direzione Archivi, assume molte competenze della Direzione Educazione e ricerca (soppressa), ma perde le Biblioteche, assegnate al Dipartimento Attività culturali. Era meglio provare al contrario ad avvicinare la gestione di Biblioteche e Archivi, magari senza retrocedere in seconda fascia l’Archivio Centrale dello Stato.

Non lascia presagire nulla di buono la netta separazione fra Dipartimento Tutela e Dipartimento Valorizzazione. Ci siamo sgolati per anni a dire che non sono la stessa cosa, certo, ma l’una e l’altra sono strettamente interconnesse e l’una non funziona senza l’altra. Tanto più che, per quanto riguarda il Dipartimento Valorizzazione, la finalità economicistica della gestione del patrimonio è tema davvero ossessivo. Non sarò io a negare l’enorme valore economico del patrimonio culturale; ma ben altra cosa è la sua interpretazione come un limone da spremere. Magari in maniera selvaggia come si è tentato con il decreto/editto 161 dello scorso marzo...

Il vero problema sembra essere tuttavia la nuova (vecchia) organizzazione per Dipartimenti, già varata ai tempi del ministro Buttiglione e presto abbandonata non per motivi politici, ma perché ritenuta non adeguata a un Dicastero come quello della Cultura, capillarmente distribuito sul territorio. Il criterio organizzativo per Dipartimenti di natura tematica non tiene conto infatti di quanto i confini fra le competenze nel territorio si intreccino necessariamente. In pratica, per ogni azione che tocchi le competenze di più di un Dipartimento, Soprintendenze, musei e archivi potrebbero trovarsi a chiedere più azioni da parte dell’amministrazione centrale aumentando il livello di farraginosità burocratica. Non è un caso infatti che a un’organizzazione unificata attorno a un segretario generale si affidino altri Ministeri (come Difesa e Università) molto ramificati territorialmente tra centro e periferie. Questa riorganizzazione è destinata ad aumentare le difficoltà di cooperazione di una struttura già patologicamente organizzata per canne d’organo mal comunicanti.

La nomina da parte del ministro di quattro capidipartimento a fronte di un solo segretario generale aumenta il potere discrezionale della politica. Questa scelta va nella stessa direzione del tentativo di liberarsi di un Consiglio superiore per i Beni culturali e il Paesaggio nel quale il ministro Sangiuliano ha già introdotto membri di sicura obbedienza, non apprezzando quanto gli sarebbe stato invece utile un organo consultivo partecipe dialetticamente della grandi scelte politico amministrative. Altrimenti perché svuotare il Consiglio di due membri (di nomina non ministeriale) accorpando in un solo Comitato tecnico scientifico le competenze archeologiche, architettoniche e storico artistiche che non sono certo scomparse magicamente con la riforma delle Soprintendenze? Speriamo che non siano questi i veri motivi di una riforma di cui non si sentivano né il bisogno né l’urgenza. Cerchiamo di pensare sempre positivo: giudicheremo l’operato del ministro dalle sue scelte, e quindi dai fatti. Che è quanto il ministro chiede assumendosene com’è ovvio tutta la responsabilità.

Leggi anche:
La riforma del MiC secondo gli esperti. Carla Di Francesco: «Non era così necessaria, rischiamo la paralisi»
Ecco la riforma del Ministero della Cultura, articolo per articolo
 

Archivio Centrale dello Stato. Foto Lalupa

Daniele Manacorda, 09 gennaio 2024 | © Riproduzione riservata

Articoli precedenti

Considerazioni sul decreto ministeriale sui canoni di concessione d’uso della immagini del patrimonio culturale pubblico

Posizioni politiche e sentenze emesse: prosegue il dibattito sulla libertà di riproduzione delle immagini

Uno conserva le fattezze gioviali di una visione che un tempo chiamavamo progressista, ma identifica «statale» con «pubblico», l’altro è nostalgico dello «Stato etico» ottocentesco

Che senso hanno gli apprezzabili richiami del ministro a Benedetto Croce se poi i suoi atti vanno in una direzione opposta, così palesemente illiberale?

La riforma del MiC secondo gli esperti. Daniele Manacorda: «A che cosa serve cambiare» | Daniele Manacorda

La riforma del MiC secondo gli esperti. Daniele Manacorda: «A che cosa serve cambiare» | Daniele Manacorda