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Luca Scarlini
Leggi i suoi articoliVivienne Westwood ha lasciato un segno nel mondo della moda, come nella cultura popolare. Ora arriva in libreria la sua autobiografia (scritta insieme a Ian Kelly, traduzione di Marilisa Pollastro, pp. 414, € 30,00), tradotta a tamburo battente dalla casa editrice bolognese Odoya. Dagli inizi tumultuosi negli anni Settanta la sua visione è sempre stata quella di un abito che racconta: di questo narravano le vetrine di Let it Rock, aperto nel 1971, per passare al celebre Sex, mecca del vestito fetish, di cui la designer celebrava il nome esibendosi con il fondoschiena scoperto, insieme a Chrissie Hynde (futura leader dei Pretenders) e la potente Jordan, che trionfa in «Jubilee» di Derek Jarman nelle vesti rivoluzionarie di Amyl Nitrate.
Insomma la scena punk, che poi deflagrò nell’estate del 1977, veniva messa a punto in quel negozio «che era come un salotto», frequentato da artisti rivoltosi e aspiranti cantanti. Le t-shirt divennero il campo di espressione principale, tra immagini sbiadite della regina, con spilla da balia alla bocca, scene di seduzione omosessuale tra cowboy e un esplicito «fuck», scritto con le ossa di pollo bollite e macabramente composte in un lettering.
La vita e il lavoro insieme a Malcolm McLaren hanno messo in azione un immaginario che ancora oggi esercita un notevole fascino e suscita citazioni ed emulazioni. Gli anni seguenti sono stati quelli dell’approdo al fashion system (la prima sfilata a Parigi è stata nel 1983), giocando con riferimenti diversi, tra il Settecento di Boucher e Hogarth, e le zeppe, bellissime e importabili, da cui tracollò Naomi Campbell, esplorando le memorie visive di epoche diverse, ma tornando sempre alle sue passioni: tra lampi di eros e t-shirt e abiti con chiari messaggi politici, in cui Madame Westwood dichiara il suo impegno contro il riscaldamento globale e si esibisce insieme al nipotino con indosso un’attualissima maglietta bianca che recita all’interno di un rosso cuore: «I’m not a terrorist».
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