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La pittura, si sa, è tornata a splendere da qualche tempo nel mondo dell’arte, dopo un lungo «inverno» fatto d’indifferenza quando non di derisione. Ma c’è pittura e pittura. Quella scelta da Chiara Bertola e Davide Ferri per «Glitch», la mostra da loro curata per Building a Milano, è una pittura per così dire «autoreferenziale», che, astratta o figurativa che sia, ignora e rifiuta programmaticamente la rappresentazione, per guardare solo a sé stessa e alla propria materialità, offrendo all’osservatore un interstizio attraverso cui penetrare in una dimensione «altra», carica di un’energia insospettata.
Alla radice, il pensiero del filosofo, grecista e sinologo francese François Jullien (1951), che nella sua ricerca pone a confronto la cultura europea e quella cinese, andando in cerca di quegli «scarti» («écart», cioè distanza, intervallo) che ci permettono di decentrarci, mettendo in una nuova prospettiva delle sicurezze che credevamo assodate ma che, illuminate dall’alterità della cultura cinese, acquisiscono nuovi significati.
Così accade anche nei lavori pittorici (una trentina quelli in mostra) dei dieci artisti italiani e internazionali (Simon Callery, Angela de la Cruz, Peggy Franck, Pinot Gallizio, Mary Heilmann, Ilya & Emilia Kabakov, Andrea Kvas, Maria Morganti, Farid Rahimi, Alejandra Seeber) scelti dai curatori. Generazioni differenti e lontane (Gallizio nato nel 1902, Andrea Kvas nel 1986), formati in culture diversissime (dall’Argentina di Alejandra Seeber all’Ucraina di Ilya ed Emilia Kabakov, dagli Stati Uniti di Mary Heilmann al grembo culturale europeo in cui sono cresciuti tutti gli altri), i dieci artisti sono uniti dall’approccio comune a una «mera pittura» fondata sull’oggettività più severa, e su una riflessione sul linguaggio pittorico e sui suoi elementi primari.
Come spiegano i curatori: «formato, misura, supporto, colore (“un colore che non imbelletta”, come dice Maria Morganti), il cui esito è un oggetto pittorico che nega qualsiasi carattere narrativo, rappresentativo e illusionistico e afferma la sua presenza senza significare altro che se stesso». Così, se Pinot Gallizio (Alba, 1902-1964) crea una pittura «industriale», i Kabakov (nati entrambi a Dnepropetrovsk, Ucraina: Ilya, 1933-2023; Emilia, 1945) inventano un autore inesistente che entra in dialogo con la storia dell’arte (in mostra, l’installazione «Charles Rosenthal, Im park 1930»), mentre Angela de la Cruz (A Coruña, 1945) «scioglie» tela e telaio in un insieme di fluide pieghe e drappeggi.
Da parte sua Alejandra Seeber (Buenos Aires, 1969) sovrappone ai suoi dipinti dei segni che rendono instabile la visione e Farid Rahimi (Losanna, 1974), quasi un novello Alain Robbe-Grillet (il teorico del Nouveau Roman), con il suo assoluto oggettivismo, dipinge da anni l’angolo di una stanza in modo neutro e in apparenza «anaffettivo», portandolo sino ai limiti dell’astrazione. E così (o anche diversamente, ma sempre sotto il segno della «neutralità») accade in tutti gli altri artisti presenti in questa rassegna, che sarà visibile da Building dall’8 novembre al 27 gennaio 2024.

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