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Patrizia Monterosso

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Patrizia Monterosso

No alle mostre preconfezionate

Patrizia Monterosso ha cambiato la rotta della Fondazione Federico II, prediligendo una programmazione curata in tutti i dettagli

Giusi Diana

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Una nuova stagione di grandi mostre ideate e prodotte, dal taglio scientifico rigoroso e originale, si prospetta per gli spazi espositivi del Complesso Monumentale di Palazzo dei Normanni, grazie alle attività della Fondazione Federico II, l’organo culturale dell’Assemblea Regionale Siciliana. Tra i suoi numerosi compiti istituzionali, quello di valorizzare il patrimonio culturale siciliano e di curare la gestione dei servizi aggiuntivi di Palazzo dei Normanni e della Cappella Palatina, che si trova al suo interno.

Dal 2018 per la prima volta alla direzione della Fondazione c’è una donna, Patrizia Monterosso, che in soli tre anni ha impresso una svolta decisa e per certi versi rivoluzionaria, dicendo di no alle mostre preconfezionate (una vera piaga per molti spazi espositivi siciliani anche istituzionali) e aprendo per la prima volta l’accesso al pubblico dal fronte principale del Palazzo, quello su piazza del Parlamento.

Noi l’abbiamo incontrata nel suo «quartier generale», dove i progetti espositivi della Fondazione nascono e vengono seguiti, insieme al suo staff, fino all’ultimo dettaglio; si tratta di un piccolo ufficio ricavato all’interno dell’Oratorio dei Santi Elena e Costantino, da cui attraverso una vetrata ci si affaccia direttamente da una cantoria sulla volta affrescata da Guglielmo Borremans.


Ci racconta come nasce «Purification. From Bill Viola to the Palatine Chapel», la mostra aperta al pubblico il 10 luglio (fino al 28 febbraio), nelle sale Duca di Montalto di Palazzo dei Normanni?
Dopo avere esplorato, attraverso le mostre precedenti, alcuni aspetti del Palazzo, che è stato insieme fortezza e corte, bisognava parlare dell’aspetto forse più difficile da affrontare, quello spirituale (per la presenza della Cappella Palatina, Ndr), e unire arte antica e contemporanea. Abbiamo scritto un progetto e lo abbiamo inviato allo Studio di Bill Viola, perché ci interessa la sua ricerca che si contraddistingue per l’approfondimento delle culture sia occidentali sia orientali, e tratta temi universali, come quello della vita e della morte, una visione che ruota anche intorno ai concetti di purificazione e rinascita.

La sua arte instaura un rapporto tra materiale e spirituale, proprio come avviene anche nella Cappella Palatina, il cuore pulsante di quel corpo unico che è Palazzo dei Normanni. Le opere di Bill Viola, cinque grandi videoinstallazioni (quattro della serie «Martyrs» e la celebre «Tristan’s Ascension») sono allestite negli spazi espositivi delle Sale Duca di Montalto, all’interno del mondo spirituale suggerito dal Palazzo, attraverso un dialogo con opere d’arte sacra. Con la tecnica
dello slow motion l’artista esprime una riflessione sul tempo che ci porta a interrogarci sull’Eterno; il tempo per lui funziona quasi come uno scalpello.


La prima mostra della sua direzione, «Sicilië, pittura fiamminga» nel 2018, ha rappresentato una svolta.
È nata a soli tre mesi dal mio insediamento, dalla scelta precisa di dire di no al mercimonio delle mostre, al «mostrismo» che gira intorno ai musei e ai siti culturali del nostro Paese, e che riduce la cultura in briciole. Un mostro commerciale. La mostra è un fatto culturale preciso per me, ogni messaggio culturale è anche un messaggio sociale. Mi sono ritrovata a dire di no a mostre di arte antica o contemporanea che mi venivano presentate già pronte «in valigia», e che non partivano dalla valorizzazione del sito in cui sarebbero state presentate (non uno spazio espositivo qualunque, ma un monumento ricco di storia come Palazzo dei Normanni, Ndr). Non essendo concepite con un obiettivo preciso, non narravano neanche la eventuale grandezza dell’artista che proponevano.

Da queste premesse è nata la prima mostra «Sicilië, pittura fiamminga» che affrontava un periodo storico in cui la Sicilia era stata grande sia nei commerci sia nella cultura, attraendo commercianti del Nord e artisti provenienti da Paesi stranieri. Un humus fertile che si collega con l’idea generativa da cui è nato Palazzo dei Normanni: essere un laboratorio storico che mette insieme popoli e culture. Così è nato un metodo, ossia concepire noi le mostre secondo una visione precisa, con l’immagine della Sicilia come laboratorio, e un filo conduttore che è sempre rappresentato dal Palazzo stesso. È stato possibile grazie a una bella squadra di persone che difendono insieme a me il concetto di fruizione autentica, facendo anche autocritica quando serve
.


Perché spostare l’ingresso al pubblico da piazza Indipendenza al fronte principale del Palazzo, su piazza del Parlamento?
Entrare a Palazzo dei Normanni (e alla Cappella Palatina, Ndr) dall’ingresso secondario è inconcepibile per un monumento di tale importanza, che è anche sito Unesco. Era contrario rispetto alla sua storia, poiché era stato concepito come il centro di uno Stato in rapporto al suo territorio. Pertanto abbiamo deciso, dopo più di un secolo, di ripristinare questa apertura, che si trova subito dopo il portone viceregio; dal nuovo ingresso si accede direttamente al bookshop, e da qui inizia il percorso di visita. Oltre a quelli simbolici, è stato necessario abbattere anche muri fisici; con potenti sistemi tecnologici abbiamo verificato l’esistenza, in questa parte del Palazzo, di corridoi medievali integri che erano stati murati. Bisognava assolutamente riaprirli. Stiamo parlando di arterie costitutive del monumento, riferimento all’arte e alla storia medievale. Durante i lavori abbiamo rinvenuto anche un affresco che è stato recuperato.


Per la prima volta una donna è a capo della Fondazione. Quali mostre avete dedicato a personaggi femminili?
Non molti sanno che anche il Palazzo è stato concepito da una donna, come scrive Henri Bresc nel suo saggio in catalogo per la mostra «Castrum Superius» del 2019. Adelasia, regina di Gerusalemme, fu una donna che credette nell’importanza di spostare la sede del Regno da Messina a Palermo e che concepì il Palazzo come fortezza militare, corte (l’aspetto palaziale), ma anche centro della spiritualità. Prima ancora di questa mostra su Palazzo dei Normanni, abbiamo recuperato il progetto di una donna coraggiosa, con la mostra «O’Tama, migrazione di stili», sull’artista giapponese O’Tama Kiyohara, vissuta a Palermo dal 1882 al 1933. O’ Tama ha una serie di primati: è stata la prima donna orientale a recarsi in Sicilia, in seguito al matrimonio con lo scultore siciliano Vincenzo Ragusa, ma anche la prima artista donna a dipingere la luce artificiale in una sua opera.

Il fulcro della mostra è stato il progetto, suo e del marito, di dare vita a Palermo a una scuola museo, un’idea innovativa ancora adesso. Abbiamo recuperato e restaurato i suoi acquerelli, custoditi presso l’Istituto d’Arte che porta il suo nome, esposti insieme a opere provenienti dalla collezione del Museo delle Civiltà-Museo preistorico etnografico Luigi
Pigorini di Roma. Sono stati ricostruiti gli ambienti della loro casa museo d’arte giapponese a Palermo, che era anche scuola officina, in spazi inediti del Palazzo, gli appartamenti reali (gli spazi espositivi utilizzati per le mostre solitamente sono le sale Duca di Montalto, al piano terra, Ndr). Inoltre abbiamo dedicato nel 2018, anno di Manifesta a Palermo, una mostra sui mille volti di Rosalia, donna e santa, una delle esposizioni più visitate, con 720mila presenze, «Rosalia, eris in peste patrona», attraverso i capolavori di grandi artisti come Van Dyck, Pietro Novelli e Mattia Preti.


Si è da poco conclusa la mostra «Terracqueo». Quale idea di Mediterraneo ha proposto?
La mostra, che nonostante la pandemia è riuscita ad avere un buon numero di visitatori, quasi 75mila, è nata in un momento in cui l’Europa era scissa sui temi del rapporto tra l’Italia e gli altri Paesi del Mediterraneo. Abbiamo voluto rappresentare quel mare attraverso la cultura, il commercio, gli scambi, la navigazione, ma anche la morte perchè bisogna essere onesti fino in fondo e rappresentare i mille volti del Mediterraneo di oggi, e lo abbiamo fatto attraverso un reportage realizzato dal giornalista Claudio Vulpio e dalla fotografa Lucia Casamassima. Inoltre nella mostra per noi era importante avere un’opera straordinaria, l’Atlante Farnese (II secolo d.C.), proveniente dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che con l’espressione del volto ci dice che la conoscenza del mondo non può essere sofferenza.

In questi anni abbiamo dedicato ai temi dell’integrazione diversi progetti, tra cui la realizzazione di tre opere di Street art sui palazzi del quartiere della Kalsa e «Acqua passata» con l’artista siciliano Cesare
Inzerillo, con cui sono stati commemorati tutti i morti in mare, facendo arrivare da Lampedusa un’imbarcazione che aveva salvato tante vite. E soprattutto nel 2018 siamo usciti fuori dal Parlamento, sulla piazza prospiciente, proprio quella piazza che fino all’anno prima era incoerentemente adibita a parcheggio, per parlare di umanità e di integrazione, attraverso l’installazione fotografica «Inside Out» dell’artista francese JR, un progetto globale di arte publica partecipativa, realizzato in collaborazione con Sky Arte, con oltre 4mila ritratti fotografici di persone di diverse culture, nazionalità ed età. È stato forte ed emozionante.

Patrizia Monterosso

La Sala di Re Ruggero coi Leoni, Palazzo dei Normanni, Palermo

Bill Viola, un fotogramma di «Tristan's Ascension», 2005 © 2021 Bill Viola Studio

Giusi Diana, 28 agosto 2021 | © Riproduzione riservata

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No alle mostre preconfezionate | Giusi Diana

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