Nft: balocchi deluxe degli Uffizi

17 opere dalle collezioni del museo sono state trasformate in Nft tra lo stupore (ingiustificato) di media e popolo

Il Tondo Doni Michelangelo nel nuovo allestimento agli Uffizi. Foto Vincenzo Pinto/AFP
Gloria Gatti |

Ogni volta che porto la mia bambina in un museo, dopo la visita, compriamo una palla da mettere sull’albero di Natale, che riproduce l’immagine dell’opera che più le è piaciuta. Da quando ho memoria nei musei si vendono ricordi, che nei libri di economia della cultura vengono identificati con il termine di merchandising e che, in casi come quello dell’Isabella Stewart Garden Museum di Boston, sono diventati oggetti talmente iconici da attirare essi stessi visitatori.

Gli NFT (Non-Fungible Token) che contengono le immagini digitalizzate in alta risoluzione di 17 opere delle Gallerie degli Uffizi (realizzate con tanto di cornice dalla società Cinello che le chiama DAW) non sono altro che dei balocchi deluxe, come le cartoline, i magneti, i quadernini e le matite che i visitatori portano a casa come souvenir.

Così come nessuno si è posto il problema della volgarizzazione della cultura per il fatto che la «mia» Venere di Botticelli ogni anno il 7 gennaio finisce in un scatolone di plastica in cantina, o per l’immagine della Gioconda piazzata da Jeff Koons e Louis Vuitton su una borsetta, altrettanto, Le Iene non avrebbero dovuto porsi il problema di un ricco signore che ha appeso una cornice rotonda con dentro lo schermo di un televisore in cui è riprodotta l’immagine del Tondo Doni di Michelangelo.

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio infatti subordina a un provvedimento concessorio, di natura discrezionale, dell’ente che ha in consegna il bene la riproduzione dei beni culturali in carico al Ministero, alle regioni e agli altri enti pubblici (articoli 107-109 Codice dei beni culturali). La concessione della facoltà di riproduzione (e la determinazione dell’eventuale canone o corrispettivo) è in particolare subordinata alla valutazione delle utilizzazioni previste, che devono costituire oggetto di dichiarazione e di impegno da parte del richiedente nei confronti dell’Amministrazione. Di norma il provvedimento concessorio  limita l’ulteriore utilizzabilità delle immagini.

La concessione di un’esclusiva è incompatibile con le previsioni del diritto pubblico e sarebbe, peraltro, nulla. Trattandosi di una mera copia digitale di un bene culturale, senza alcun apporto creativo, non può considerarsi un’opera protetta dal diritto d’autore e neppure godere di autonomo e nuovo diritto di riproduzione, tant’è che Cinello ha registrato un brevetto.

In America dopo la pandemia si è diffuso il fenomeno dell’«art deaceassoning», ossia la vendita delle opere fisiche delle collezioni dei musei, inalienabili in Italia, per consentire aumenti salariali ai dipendenti.

Un bene culturale è unico e «irriproducibile» perché incarna un valore immateriale, identitario ed emozionale, ma la vendita della copia del Tondo ha portato un ritorno economico importante, «a titolo di corrispettivo per la concessione», senza costituire alcuna perdita per il Patrimonio nazionale; anzi, la riproduzione delle immagini dei beni culturali è uno strumento essenziale per promuoverne la conoscenza.

Ma in Italia gridiamo allo scandalo, e «continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato», come scriveva Francis Scott Fitzgerald per concludere la storia del Grande Gatsby, e di questo passo potremmo addirittura finire a rincorrere persino le matite.

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