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Il «Nudo disteso» del 1917 di Amedeo Modigliani, ora alla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli di Torino. © Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli

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Il «Nudo disteso» del 1917 di Amedeo Modigliani, ora alla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli di Torino. © Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli

Nel nome di Agnelli

La tentazione irresistibile di scandalizzare

Gloria Gatti

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Pochi giorni fa abbiamo letto sul quotidiano «La Verità», poi ripreso da Dagospia, l’ennesimo scoop sui tesori dell’arte della collezione dei Kennedy d’Italia: le opere d’arte dell’eredità di Gianni e Marella Agnelli. Tra questi vi sarebbero un Arlecchino di Picasso e cinque ritratti di Gustav Klimt, che sarebbero «occultati» dalla famiglia alla nazione e, pertanto, si chiederebbe al ministro Franceschini di fare chiarezza.

Forse è opportuno davvero fare chiarezza.

È noto che l’Avvocato, un esteta ed egli stesso un tableau vivant, ha per tutta la vita coltivato la passione dell’arte, condividendola con la moglie e acquistato, via via, quello che lo colpiva, per goderne privatamente nelle sue residenze italiane ed estere.

Prima della morte una parte importante e di pregio della raccolta (ventitré quadri e due sculture; tra queste anche il «Nudo disteso» del 1917 di Amedeo Modigliani che arredava il salone della loro dimora romana a Palazzo Albertini Carandini), è stata donata, non prestata, a una fondazione, all’uopo costituita, denominata «Pinacoteca del Lingotto Giovanni e Marella Agnelli» con «finalità di diffondere la conoscenza e l’amore per l’arte, in particolare tra i giovani» ed è pubblicamente esposta in permanenza nello Scrigno di Renzo Piano che campeggia sul tetto del Lingotto, primo stabilimento Fiat. La restante parte è rimasta di proprietà privata della famiglia.

Ora, a distanza di un anno dalla morte di Marella Caracciolo, ci si duole che lo Stato non si sia preoccupato di notificare le opere della raccolta privata per «interesse nazionale», apponendo sulle stesse il vincolo come beni culturali di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 42 del 2004 e che la figlia Margherita non abbia dato disponibilità a una loro ostensione al pubblico.

Che anche per le opere di proprietà privata che si trovino sul territorio nazionale possa essere dichiarato l’interesse nazionale a seguito di un procedimento di verifica, cui consegue il divieto di esportazione definitiva, è fatta espressa previsione nel Codice dei Beni Culturali.

Va precisato, però, che se un’opera è stata acquistata in origine già corredata di un valido e corretto attestato di libera circolazione di massima il vincolo non può essere apposto, così come nel caso in cui l’oggetto d’arte si trovi in Italia corredato da un certificato di importazione temporanea.

Ai collezionisti italiani, inoltre, a prescindere dal loro cognome, è anche consentito di acquistare e detenere legalmente all’estero dipinti e sculture, senza essere gravati da alcun obbligo di legge di importazione in Italia, e per tale ragione Paesi come la Svizzera che considerano inviolabile la proprietà privata sono divenuti luoghi privilegiati anche perché immuni dal Leviatano della notifica.

Non è noto né lo deve essere dove e quando sia stato comprato, ad esempio, l’«Arlequin» di Picasso del 1909, sempre stato appeso nell’ingresso del plurifotografato appartamento di Marella a New York al 770 di Park Avenue che compare anche nel catalogo d’asta di Sotheby’s New York «Property from the collection of Mrs. Marella Agnelli» del 24 ottobre 2004, ove sono stati battuti arredi e altri pezzi d’arte dallo stesso provenienti, ma non il dipinto.

Quello che, invece, sempre da Sotheby’s New York, era stato inserito nel catalogo per la vendita del 3 novembre 2008 e poi ritirato, stimato oltre 30 milioni di dollari è un altro Arlecchino, un primo cubista sempre del 1909, appartenuto però al pittore surrealista Enrico Donati che lo acquistò negli anni ’40 per 12mila dollari, che nulla ha a che fare con la Collezione Agnelli se non come dimostrazione del fatto che un'opera che oggi ha rilevante valore possa essere stata acquistata un tempo a un prezzo finanche relativamente modesto.

Il Codice dei Beni Culturali, inoltre, non contiene alcuna norma per cui il privato proprietario di un’opera dichiarata di rilevante interesse storico artistico debba consentirne la pubblica fruizione ma anzi all’articolo 48, in specificazione del principio generale di cui all’articolo 20 (rubricato «interventi vietati»), circonda di cautele il prestito per mostre ed esposizioni, prevedendo che esso sia soggetto ad autorizzazione, rilasciata tenendo conto delle esigenze di conservazione dei beni e subordinata all’adozione delle misure necessarie per garantirne l’integrità.

Solo nel caso degli archivi notificati l’articolo 127 prevede un obbligo di consultabilità per quelli privati, ma non da parte del pubblico in generale: dei soli «studiosi», dietro «motivata richiesta tramite il soprintendente archivistico», e «secondo modalità concordate».

La naturale destinazione, la naturale forma di godimento dello specifico bene in questione (opera d’arte) è quindi quella della personale fruizione estetica, essendo solo eventuale quell’altra forma di godimento costituita dal prestito per mostre o dalla diretta esposizione al pubblico, o dalla riproduzione editoriale rimesse alla sola volontà del proprietario, anche secondo la Cassazione n. 13036 del 1991.

Solo in caso di vendita e di conferimento in società, non invece di successione, lo Stato vanta un diritto di prelazione sull’acquisto, ai sensi dell’art. 60, che nella prassi resta, però, solo una lettera morta del Codice dei Beni Culturali dovendosi scontrare con i capitoli di spesa del Bilancio dello Stato e con un debito pubblico talmente pesante che in questo momento storico fatica persino a consentire la conservazione e valorizzazione del patrimonio pubblico.

Quello degli Agnelli, insomma, è l’ennesimo caso in cui si invoca una tutela come bene culturale fatta solo di vincoli, notifiche e altre compressioni dei diritti domenicali che pare quasi una invidiosa «persecuzione» della privata proprietà, incompatibile con i principi di uno Stato liberale e di diritto, che, nel pur lecito contemperamento dell’interesse pubblico dovrebbe sacrificare quello del privato solo quando ne possa derivare un beneficio più grande per la collettività e un effettivo «inammissibile depauperamento del patrimonio culturale nazionale» (Tar Lazio 24 marzo 2011 n. 2659).

Nel pronunciarsi sull’impugnazione del diniego al rilascio dell’attestato di libera circolazione dell’opera «Le verre» di Picasso il Tar del Lazio (Sent. 30 luglio 2008 n. 7756) ha chiarito, inoltre, che «la provenienza da una collezione privata di rilevante interesse […] non può assumere alcun valore decisivo in merito all'opportunità di assoggettare l'opera a vincolo, in quanto detta circostanza non rientra tra quelle contemplate dalla normativa in materia quale presupposto per la dichiarazione dell'interesse storico artistico particolare importante» e questo dovrebbe essere un principio valevole anche dopo l’entrata in vigore del DM 537 del 2017 e nonostante tra le linee guida indicate dal Mibact siano ricomprese le opere che costituiscano «testimonianza particolarmente significativa per la storia del collezionismo», di cui le opere nello Scrigno hanno già assolto il valore e il fine di testimonianza storica.

Il «Nudo disteso» del 1917 di Amedeo Modigliani, ora alla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli di Torino. © Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli

Gloria Gatti, 21 luglio 2020 | © Riproduzione riservata

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