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Napoleone razziatore illuminato

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Redazione GDA

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In un periodo storico scosso dalle profonde spinte secessioniste che stanno minando l’Unione Europea, mettendone in discussione il significato politico e quindi culturale, le Scuderie del Quirinale, nella loro nuova funzione di spazio espositivo del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, presentano fino al 12 marzo la mostra «Il museo universale. Dal sogno di Napoleone a Canova», che rievoca l’avventuroso recupero dei capolavori italiani (da Raffaello a Guido Reni, Tiziano, Correggio, Annibale Carracci, Guercino) dalla Francia, dove Napoleone li portò tra il 1796 e il 1814 dalle campagne militari francesi per il nascente Musée du Louvre. Con l’intento di sottolineare il ruolo svolto in questi duecento anni proprio dal patrimonio culturale italiano quale strumento necessario per l’educazione del cittadino (favorita dall’apertura di alcuni dei più importanti musei italiani) e perno di una comune identità europea, i curatori Valter Curzi, Carolina Brook e Claudio Parisi Presicce hanno riunito alcuni dei capolavori (circa l’80 per cento delle opere requisite) che, grazie al Congresso di Vienna, rientrarono a Roma nella primavera del 1816 e che lo Stato pontificio e molte amministrazioni locali italiane si videro restituire. Il brano che segue è tratto dal saggio «“l’imperio delle lettere e arti belle”: verso una nuova coscienza del patrimonio culturale negli anni della Restaurazione» di Curzi, pubblicato nel catalogo della mostra edito da Skira. 

La spoliazione di opere d’arte dei territori interessati dalla conquista militare non è di certo una novità quando le truppe napoleoniche nell’aprile del 1796 invadono l’Italia. È tuttavia un fatto inedito che il prelievo dei beni venga fatto rientrare in alcuni casi nelle clausole dei trattati di pace e che una commissione, composta da esperti, sia incaricata di selezionare i materiali da inviare in Francia. Si tratta, in definitiva, di un’operazione che fin dall’avvio intende sottrarsi alla logica di usurpazione tipica di un esercito vincitore per apparire piuttosto come la messa in opera di un diritto acquisito, sulla spinta di principi e ideali. Per comprendere dunque tale prospettiva e non ricadere nell’abuso di termini quali «furto» e «bottino di guerra», che ben pochi dubbi lascia sulla lettura unilaterale di fatti storici da analizzare, diversamente, in tutta la loro complessità, sarà utile interrogarsi, in primo luogo, su che cosa rappresentassero alla fine del Settecento antichità e belle arti. Il secolo aveva maturato nel corso dei decenni l’idea che esse fossero uno strumento indispensabile per l’educazione e l’affinamento dello spirito, componente non secondaria, inoltre, nella promozione dell’immagine di governi illuminati. Sottratte alla logica di semplici beni di lusso o di oggetti legati al culto, le opere d’arte e, più in generale, la produzione artistica, divengono lo specchio del grado di civiltà di una nazione e nell’Europa dei Lumi funzionali all’aspirazione dei paesi culturalmente più avanzati di farsi interpreti e divulgatori di valori universali. (…) 

Con l’avanzare del XVIII secolo, a coadiuvare il compito dell’accademia interviene una nuova istituzione: il museo. Il museo sceglie, cataloga e ordina i modelli figurativi del passato, creando un repertorio di forme e d’immagini indispensabile nella creazione artistica e nella formulazione dell’estetica contemporanea; raccoglie inoltre le testimonianze della storia e ne documenta e valorizza il portato normativo. L’apertura a Roma nel 1734 della «Galleria delle Statue» in Campidoglio e più avanti nel secolo del Museo Pio Clementino fu salutata da tutte le nazioni in tutti i continenti, Russia e America comprese, come uno straordinario momento collettivo di crescita culturale, riconoscendo l’Urbe come erede indiscussa di quel mondo classico divenuto fonte di paragone di ogni scelta per la contemporaneità. Che la Francia napoleonica fosse interessata a spodestarne il primato culturale è questione comprensibile se si tiene conto dell’ambizione della nazione di rigenerare, tramite la conquista, costumi ed etica sotto il «dominio» della libertà. Édouard Pommier ha magistralmente spiegato come l’identificazione tra libertà e cultura, già celebrata da Winckelmann a proposito dell’arte greca, si sarebbe prestata a giustificare le operazioni di requisizioni delle opere. (...)

Sul finire dell’estate del 1815 tutti i rappresentanti degli Stati italiani si presentarono alle porte del Louvre con l’intenzione di recuperare le opere d’arte requisite. Il loro rientro fu in verità più complicato di quanto fosse possibile ipotizzare nei giorni concitati della caduta di Napoleone. Alla difficoltà di rintracciare i beni, soprattutto quelli inviati a partire dal 1800 nei musei provinciali di Francia, si aggiungevano delicate questioni diplomatiche che, data la complessa opera di riorganizzazione dell’assetto politico dell’Europa, suggerivano alle potenze alleate un’estrema cautela. (…) Dalla fine del mese di agosto del 1815, per circa due mesi, i commissari italiani, liste alla mano, si occuparono di rintracciare le opere e di radunarle nella caserma austriaca della Pépinière da dove, incassate e imballate, partirono per Milano tra il 23 e il 25 ottobre in una lunga e nobile processione, composta da quarantuno carri trainati da duecento cavalli, giunta a destinazione nei primi giorni di dicembre. Altri invii seguirono nei mesi successivi via terra e via mare; l’intera operazione poteva dirsi conclusa con il rientro a Napoli nel 1817 delle opere trafugate da Gioacchino Murat in fuga dalla capitale partenopea due anni prima. Il bilancio delle restituzioni appariva soddisfacente solo in parte, condizionato, come fu, dalla capacità diplomatica dei singoli commissari addetti alle restituzioni e dall’impegno dei governi; poteva pertanto accadere che Verona vedesse recuperati tutti i dipinti sottratti nel 1797 e depositati al Louvre, mentre nella Galleria Estense di Modena facevano ritorno solo ventuno dei quarantanove quadri prelevati. Nonostante ciò l’operazione di rientro fu salutata ovunque da un vero e proprio giubilo popolare. Il successo delle mostre che in diversi luoghi vennero organizzate per celebrare pubblicamente l’arrivo dei capolavori artistici dovette cogliere di sorpresa gli stessi organizzatori. (…) Si può considerare come, nell’assenza di quelle pale d’altare per secoli conservate nelle chiese cittadine senza neanche troppi riguardi, fosse maturata una nuova affezione e insieme la consapevolezza che esse rappresentavano ben più che degli oggetti di culto. (…)

Artisti, accademici, eruditi si unirono nel progetto di valorizzazione della storia delle scuole pittoriche locali, ripercorsa, per la prima volta, a partire dalle testimonianze più antiche, per il decoro della patria o il vantaggio della nazione, come capita di leggere nelle fonti d’archivio che documentano l’apertura dei musei. Sebbene tavole del Trecento e del Quattrocento venissero ancora per lo più osservate come documenti dei «secoli bui», il loro ingresso nelle pinacoteche pubbliche ne favorì un interesse specifico, con una ricaduta importante nell’opera di salvaguardia condotta sul territorio che, perduta in molti casi la propria identità e tradizione storica, aveva abbandonato per secoli nel totale degrado affreschi e tavole dei cosiddetti primitivi, opere ridotte a deboli testimonianze di un passato difficile da valorizzare e perfino da decifrare. Nel confronto con queste memorie, come testimoniato nella seconda parte della mostra, si sarebbe in verità giocata, in una realtà composita dove le contraddizioni, va detto, non mancano, una delle principali carte della sensibilizzazione nei confronti della tutela del patrimonio. (…)

Redazione GDA, 08 gennaio 2017 | © Riproduzione riservata

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