Una veduta della mostra «Donatello, il Rinascimento» nel Salone di Donatello del Museo Nazionale del Bargello di Firenze

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Una veduta della mostra «Donatello, il Rinascimento» nel Salone di Donatello del Museo Nazionale del Bargello di Firenze

Luigi Cupellini, professione exhibit designer

Con la sua società Tratto ha firmato l’allestimento di grandi mostre (l’ultima: «Donatello»). Ma non solo

Originario di Bolzano, il designer Luigi Cupellini (1957) è da tempo con la sua società Tratto punto di riferimento nel campo dell’exhibit design relativo soprattutto alle mostre temporanee, con un’attività che spazia dall’ambito toscano e fiorentino a quello nazionale. Portano la sua firma, solo per citare gli eventi più recenti, gli allestimenti delle mostre fiorentine «Jeff Koons. Shine» e «Donatello. Il Rinascimento» a Palazzo Strozzi e al Museo del Bargello, «Michelangelo: l’effigie in bronzo di Daniele da Volterra» alla Galleria dell’Accademia, «Fotografe!» e «Galileo Chini e il Simbolismo Europeo» nelle sedi del Forte Belvedere e di Villa Bardini, «Onorevole e antico cittadino di Firenze. Il Bargello per Dante» e «La mirabile visione. Dante e la Commedia nell’immaginario simbolista» al Museo Nazionale del Bargello. Alla collaborazione con il Mart di Rovereto appartiene invece l’allestimento della mostra «Danzare la rivoluzione. Isadora Duncan e le arti figurative in Italia tra Ottocento e avanguardia».

Qual è stata la sua formazione e chi considera suoi maestri?

Ho studiato alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze quando la cattedra di Allestimento e Museografia non esisteva, essendo nata solo negli anni Ottanta con Alfredo Forti, autore di allestimenti ancora attualissimi come quello della Gipsoteca Libero Andreotti di Pescia. Con Alfredo ho poi collaborato nell’ambito della grande mostra a Palazzo Strozzi «Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III», curata da Piero Bigongiari e Mina Gregori, che nel 1986-87 costituì non solo la riscoperta di un periodo fino ad allora sottovalutato ma anche il trampolino di lancio per moltissimi di noi professionisti. La mia attività nell’ambito dell’allestimento iniziò però casualmente, lavorando ancora studente in uno studio che se ne occupava. Non ho particolari punti di riferimento progettuali ma continuo a imparare costantemente, sia dal lavoro degli altri sia dalla necessità di affrontare tematiche sempre nuove. Per esempio, fino a qualche decennio fa gli storici dell’arte non erano molto interessati ai temi di tipo conservativo, oggi centralissimi. Cominciarono infatti a occuparsene gli antropologi, che hanno a che fare con reperti e materiali estremamente deperibili. Le mostre temporanee sono episodi di grande criticità, perché la sola movimentazione delle opere è potenzialmente pericolosa per la intrinseca fragilità del patrimonio storico, in particolare per materiali come carta, gesso, tessuto... Si è perciò rivelata per me di grande importanza una collaborazione di parecchi anni fa con il Museo Pigorini di Roma (oggi parte del Museo delle Civiltà, Ndr). Si tratta peraltro di musei che hanno spesso conservato, come accade al Museo Antropologico di Firenze che è il più antico d’Italia, allestimenti storici di grande fascino, difficili da convertire alle prestazioni attuali ma che sarebbe una bella sfida mantenere.

Una veduta della mostra «Donatello, il Rinascimento» nel Salone di Donatello del Museo Nazionale del Bargello di Firenze

Una veduta della mostra «Donatello, il Rinascimento» nel Salone di Donatello del Museo Nazionale del Bargello di Firenze

Una veduta della mostra «Donatello, il Rinascimento» nel Salone di Donatello del Museo Nazionale del Bargello di Firenze

Una veduta della mostra «Donatello, il Rinascimento» nel Salone di Donatello del Museo Nazionale del Bargello di Firenze

Una veduta della mostra «Donatello, il Rinascimento» nel Salone di Donatello del Museo Nazionale del Bargello di Firenze

Una veduta della mostra «Donatello, il Rinascimento» nel Salone di Donatello del Museo Nazionale del Bargello di Firenze

Che cosa accomuna la sua attività in luoghi così diversi come Palazzo Strozzi e il Mart? Nota delle differenze nelle varie regioni?

Pur essendo per certi versi tipico di un contesto italiano in cui spesso si allestisce in edifici storici, con tutte le difficoltà che ne derivano, Palazzo Strozzi si trova in una condizione particolare. Il restauro degli anni Quaranta lo ha infatti completamente «spolpato», privandolo di tutte quelle caratteristiche (decori, pitture parietali ecc.) che di solito troviamo in un palazzo storico, come testimoniano le foto d’epoca. Continua ovviamente a trattarsi di un fantastico palazzo rinascimentale, ma di cui è rimasto solo un algido scheletro, privato di modifiche e stratificazioni che arrivavano fino all’Ottocento. È quindi un po’ più facile lavorarci, come in ogni spazio tendenzialmente «neutro». Il Mart è chiaramente un luogo perfetto, caratterizzato da spazi estremamente flessibili appositamente progettati per le mostre temporanee da un architetto geniale come Mario Botta. Si tratta poi di una bellissima realtà, molto ben organizzata e con un’attività intensissima che comprende oltre 20 mostre all’anno. È evidente che in spazi fortemente connotati come la Sala Bianca o il Tesoro dei Granduchi di Palazzo Pitti progettare è molto più complesso, anche se in passato ho avuto occasione di allestire parecchie mostre. Ricordo in particolare nel 2008 «Un’altra bellezza. Francesco Furini», anch’essa curata da Mina Gregori, in cui si creava un confronto tra i quadri dell’artista e la sua attività di frescante, testimoniata dalla parete da lui dipinta nella Sala di Giovanni da San Giovanni dell’attuale Tesoro dei Granduchi. Da tanti anni lavoro anche a Villa Bardini, dove gli spazi nascevano con funzione residenziale e non espositiva e sono quindi piuttosto piccoli e labirintici. Là ho recentemente allestito «Galileo Chini e il Simbolismo europeo», una bella ma complessa avventura data la ricchezza e insieme l’eterogeneità delle opere, di cui alcune di grandi dimensioni. Sul piano organizzativo invece no, non noto grandi differenze tra le varie istituzioni che si stanno sempre più allineando anche sul piano dello staff e delle gerarchie interne.

Qual è la base del suo approccio progettuale?

La prima regola per me è sempre seguire l’assunto curatoriale. Chi guida queste cose ha in mano l’ideazione del progetto, e il mio/nostro lavoro consiste nel tradurlo in qualcosa di fisico calibrandolo allo spazio disponibile. Normalmente il curatore ha un’idea abbastanza precisa di che cosa vuole. Io cerco di tenere personalmente un profilo basso, senza cercare di rappresentare mie istanze personali come si vede talvolta in alcuni allestimenti strabordanti, come se in editoria il traduttore volesse a tutti i costi mettere qualcosa di suo nel testo originale. Prendiamo ad esempio la mostra fiorentina su Donatello curata da Francesco Caglioti. La parte più complicata è stata in realtà allestire al Bargello, soprattutto proprio nel Salone di Donatello, dove erano necessarie infrastrutture non facili da inserire. Sono soddisfatto del risultato perché secondo me, paradossalmente, un intervento funziona quando non se ne parla. Pensi ad esempio all’illuminazione: se funziona non c’è bisogno di parlarne. Un caso a parte è ovviamente costituito dalle installazioni di arte contemporanea, in cui l’allestimento è parte dell’opera stessa e il ruolo del progettista si limita spesso ai soli aspetti tecnici.

C’è molta differenza tra progettare l’allestimento temporaneo di una mostra e quello permanente di un museo?

No, la principale differenza sta ovviamente nella prospettiva di durata. Il concetto di permanente e temporaneo è peraltro labile. Mi è capitato di tornare in luoghi dove 15 anni prima avevo progettato allestimenti temporanei di 3 mesi e di trovarli tuttora in uso. Con un allestimento museale ovviamente in genere le risorse economiche in campo sono maggiori, con accorgimenti di durata che riguardano per esempio le tecnologie. Oggi se ne fa dappertutto grande uso, non solo in ambito multimediale, spesso senza considerare che sono purtroppo caratterizzate da una obsolescenza rapidissima. Una ventina di anni fa per esempio si era investito moltissimo sulle fibre ottiche, rese in brevissimo tempo obsolete dall’illuminazione a led.

La pandemia ha cambiato la progettazione delle mostre? 

Dopo un 2020 chiaramente disastroso, dall’anno scorso abbiamo registrato un contraccolpo quasi isterico. Una situazione che appare vivace almeno fino al 2023. Mi sono capitate moltissime offerte, ma tutte da fare con estrema velocità. Non mi sembra che sia cambiato molto, ma dato che la nostra attività è strettamente legata al mercato turistico ho la sensazione che sia aumentato il turismo d’arte, forse anche perché certe mete lontane sono diventate più difficili da raggiungere. Anche le difficoltà sono però superiori, dato che ci sono meno risorse economiche e spesso richieste di tempi appunto particolarmente stretti. L’imprescindibilità dei tempi è tipica del nostro lavoro, non possiamo finire dopo l’apertura. Personalmente però non credo al «mostrificio». Certo turismo significa numeri e quindi attrazione di risorse, ma le mostre secondo me rimangono attività culturali e funzionano non come poli di attrazione spettacolare, ma come occasioni di approfondimento. L’altissima qualità dovrebbe quindi rimanere un obiettivo imprescindibile.

© Riproduzione riservata
 

Elena Franzoia, 23 novembre 2022 | © Riproduzione riservata

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