Luca Massimo Barbero, a Venezia con la valigia in mano

Per il curatore «dobbiamo praticare quella che io chiamo la regia dello sguardo». Le opere devono sempre «parlare al visitatore raggiungendolo comunque a qualsiasi livello»

Luca Massimo Barbero
Enrico Tantucci |  | Venezia

Torinese veneziano fino al midollo, e cosmopolita. Diciottenne arriva in laguna alla corte di Giuseppe Mazzariol, una delle personalità artistiche e culturali più importanti a Venezia nel dopoguerra, per laurearsi a Ca’ Foscari in Storia e critica delle arti visive. Nel mitico Dipartimento, un cenacolo, dove insegnavano Vladimiro Dorigo, Giovanni Morell e Terisio Pignatti.

È lì che si è formata la complessa figura di Luca Massimo Barbero, studioso, storico dell’arte e curatore, che incontriamo nel suo magnifico studio panoramico di Marghera colmo di libri con lo skyline delle montagne in lontananza, le navi e l’acqua della zona portuale. Aveva esordito giovanissimo, un enfant prodige, a ventitré anni, con una mostra sui disegni di Fontana di cui oggi il maggior conoscitore.

Trentacinquenne, è presidente della Fondazione Bevilacqua La Masa che lascia polemicamente dopo tre anni per il taglio dei fondi dal Comune di Venezia, dopo averla profondamente rinnovata sollevando la polvere accumulatasi con il tempo nella promozione dei giovani artisti del Triveneto. Dal 2002 e per quasi 19 anni Barbero è stato anche il primo italiano a lavorare come curatore associato della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia con una serie di importanti mostre per la rivalutazione dell’arte italiana dal dopoguerra fino agli anni ’70, rapporto interrotto per le nuove logiche globalizzanti della casa-madre statunitense.

Dal 2009 al 2011 è direttore del Macro di Roma che contribuisce a lanciare. Tra impegni di curatela internazionali (dal Moderna Museet di Stoccolma, alla Kunsthaus di Zurigo, al Pompidou Metz), e l’insegnamento universitario torna a Venezia nel 2013, chiamato a dirigere l’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Cini. Anche qui porta un’impronta innovatrice, aprendolo al moderno e al contemporaneo e ridando vita a Palazzo Cini e alla sua splendida collezione di arte antica grazie anche al confronto con artisti contemporanei come Spalletti, Adrian Ghenie o Gabriele Basilico. Insomma, un vulcano gentile in perenne attività, descritto come appassionato, visionario ma concreto.

Tra gli ultimi incarichi, Curatore Associato delle Collezioni di Arte Moderna e Contemporanea di Intesa San Paolo. Parlare con lui di passato e futuro, è anche un modo per definire quel sincretismo fra storia e contemporaneo che è la cifra della sua multiforme personalità.

Partiamo dall’ultimo progetto, questo «Venice Time Case» che valorizza 50 giovani artisti veneziani, pressoché sconosciuti, prima a Milano, ora a Parigi, e poi a Berlino, Padova, Roma. Perché?
È un progetto, che non ha alcuna finalità commerciale, nato nella torrida estate del Covid per ricercare l’arte dove sta nascendo, anche nella mia città. A Venezia, a Mestre, ma soprattutto qui a Marghera, dove pulsa un’energia vitale giovanile che nella città storica sembra essersi un po’ sopita. Ci sono questi grandi spazi collettivi dove più artisti lavorano insieme, dividendoseli, al di fuori delle correnti tradizionali del sistema dell’arte e delle stesse gallerie. Anche come atto di responsabilità verso la mia città, per restituire qualcosa di ciò che mi ha dato, ho pensato allora di dare loro una possibilità, facendoli viaggiare. Il numero è progressivamente cresciuto, fino ad arrivare a cinquanta, quasi tutti pittori, a mio avviso bravissimi. C’è chi, come Chiara Enzo, è stata ad esempio già selezionata per la Biennale Arti Visive di Cecilia Alemani, che aprirà tra circa un mese.

Come li ha scelti?
Non li ho scelti io, si sono scelti da soli. Ho lasciato a loro questa responsabilità, mettendoli anche un po’ in crisi. Ho fissato solo le regole, chiedendo a tutti un’opera dello stesso formato rappresentativa della loro visione pittorica. Le abbiamo chiuse in «valigie», delle «flycase» create da Apice per viaggiare agevolmente, anche in auto. La prima tappa è stata a Milano nella galleria Tommaso Calabro. La seconda ora a Parigi alla Galerie Italienne, di fronte alla Bourse della Fondation Pinault, suscitando un grande interesse. Poi la mostra viaggerà sino a Berlino, a Padova e a Roma.

Perché non a Venezia?
Sarebbe stato come portare acqua a una città che già vive di essa. M’interessava molto di più che questi artisti con le loro opere viaggiassero, come un tempo facevano i veneziani per portare ovunque i propri talenti. Il progetto è partito anche su Instagram con un primo catalogo di presentazione. Al termine del loro viaggio queste opere entreranno a far parte di una collezione pubblica.

Perché ha scelto Venezia come città d’elezione?
Perché la sentivo città di riferimento della contemporaneità internazionale accanto alla sua immagine al di là del tempo. Mazzariol portava a parlare con noi studenti anche personalità come Emilio Vedova, Ludovico Belgiojoso, Manlio Brusatin, Antony Caro. Il professore sapeva passare da Arturo Martini a Francis Bacon, così come condividere con noi le sue esperienze con Le Corbusier, Aldo Rossi e Tafuri in un continuo gioco di specchi fra arte e architettura che ci ha formati. Venezia era allora un laboratorio dove si incontravano Helmut Newton e Irving Penn e gli artisti che vi risiedevano durante i mesi della Biennale e dove era possibile conoscere a Palazzo Fortuny Robert Mapplethorpe o vedere le prime installazioni di Studio Azzurro.

Pensava già, quando studiava a Venezia, di diventare un curatore di mostre?
Venezia, per me, fin dal primo momento, è stato il porto a cui tornare. Ho cominciato subito a viaggiare molto, a New York a San Francisco, tra l’Italia e gli Stati Uniti, conoscendo e frequentando personalità artistiche come Andy Warhol, Keith Haring, Basquiat tra le altre. Ero giovanissimo quando ho pubblicato i primi racconti e mi sono dedicato alla fotografia; la curatela era di fatto il modo per esercitare e condividere il mio sguardo con il pubblico.

L’affermazione è però arrivata con una mostra in particolare: quella del 1993, proprio a Palazzo Fortuny, interamente dedicata a un regista e artista come Peter Greenaway in occasione della Biennale curata da Achille Bonito Oliva.
Quella mostra ricreò completamente all’interno e all’esterno il Palazzo secondo la visione di Greenaway ma entrando in piena sintonia con lo spirito del Mariano Fortuny. Scrissero che era un «magico antro di Armida». A ventinove anni avevo individuato un nuovo rapporto tra storia, contemporaneità e curatela.

Un’altra mostra particolare fu quella dedicata allo Spazialismo nella Basilica Palladiana a Vicenza che contribuì alla riscoperta del Movimento mentre nel 1999 era Presidente della Fondazione Bevilacqua La Masa, gloriosa istituzione dedicata alla promozione dei giovani artisti del Triveneto, in crisi di identità, ma che lei rivoluziona.
Sì, con qualche ostilità interna ed esterna per la mia giovane età, nonostante il lavoro svolto fino ad allora. Un giornale veneziano dopo la mia nomina titolò: «No ai baby presidenti»… Nonostante ciò riuscii ad organizzare alcune mostre importanti come quelle dedicate a Basquiat, Frida Kahlo e Beuys che divennero un riferimento per i giovani artisti della Bevilacqua per i quali impostai un lavoro di promozione che reputo ancora significativo, con soggiorni in residenza anche all’estero. Mi dimisi dopo due anni non solo per il taglio dei fondi deciso dal Comune, ma anche perché chiedevo la concessione di quattordici studi d’artista a Marghera proprio per intercettare quei fermenti che ora curiosamente sono alla base del progetto «Venice Time Case».

Poi l’approdo dal 2002 alla Collezione Guggenheim di Venezia, come curatore associato.
Fu Philip Rylands, allora direttore della Collezione, insieme a Thomas Krens, già alla guida del Guggenheim di New York, a propormi l’incarico. Ero stato già agli archivi del museo newyorkese per il mio dottorato di ricerca e con grande onore ho lavorato diciannove anni alla Guggenheim, luogo che considero ancora la mia casa con l’impegno di valorizzare la Collezione e l’arte italiana del dopoguerra. Creammo con lo staff la serie di mostre «Temi e Variazioni tra storia e contemporaneo» ma anche l’indimenticata «Lucio Fontana. Venezia/New York», Azimuth, Tancredi, Osvaldo Licini.

Con una grande attenzione, sempre, anche all’allestimento e alla disposizione delle opere, una qualità che tutti le hanno sempre riconosciuto.
Per me la mostra deve essere un racconto dedicato a tutti, inseguendo quella che io chiamo la regìa dello sguardo. Le opere devono parlare al visitatore a diversi livelli, ma comunque raggiungendoli. Gli accostamenti, il racconto sono fondamentali così come, ad esempio, con l’uso delle cassettiere, che poi brevettai, in varie mostre che il visitatore poteva aprire per scoprire al loro interno opere quasi segrete, decidendo il tempo da dedicarvi.

Dal 2013 lei è alla guida dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Cini, e anche in questo caso il fatto che sia stato scelto uno studioso di arte moderna e contemporanea come lei è stata una grande novità.
Approfondendo quella che è la tradizione storica dell’Istituto, ho cercato anche di incrementare i suoi straordinari archivi, come ad esempio il lascito dell’Archivio Cardazzo e la donazione Malabotta, tra gli altri. Ma anche di dare nuova energia a una collezione straordinaria di pittura antica come quella di Palazzo Cini con nuovi preziosi comodati anche da parte degli eredi e attraverso un confronto con il contemporaneo che quest’anno è dedicato a Joseph Beuys, dal 19 aprile, in concomitanza con la Biennale e proprio a Palazzo Cini. Contemporaneamente curerò anche una mostra dossier che sarà a Venezia, nel Negozio Olivetti di Carlo Scarpa, sempre nel periodo della Biennale e in collaborazione con il Fai, che metterà a confronto una rara selezione di disegni e sculture di Lucio Fontana con opere di Antony Gormley in un dialogo inedito.

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