Germano Celant? Arte povera. Il binomio scaturisce immediato (oltre che su Google: quasi 78mila le occorrenze). Ed è sicuramente corretto, poiché Celant di quell’avventura italiana presto diventata internazionale fu il maieuta e la guida, ma è anche insufficiente per raccontare la vicenda intellettuale e il ruolo culturale di quello che nell’ultimo cinquantennio è stato uno dei più influenti critici e storici dell’arte moderna e contemporanea.
Critico militante e teorico prima, dal 1967, proprio con l’Arte povera (dopo la mostra di fondazione alla Bertesca di Genova, e quella alla Galleria de’ Foscherari a Bologna nel ’68, la memorabile «Arte povera più azioni povere», stesso anno, agli Arsenali di Amalfi, con Marcello Rumma), è stato il curatore di rassegne di vasto respiro, che hanno marcato la storia espositiva degli ultimi decenni, come «Conceptual art Arte povera Land art» alla Gam di Torino nel 1970, o «Ambiente/Arte» alla Biennale di Venezia del 1976 (ambiente inteso qui come lo spazio in cui l’opera d’arte s’inscrive), e dei grandi affreschi storici degli anni ’80, come «Identité italienne. L’art en Italie depuis 1959» (Centre Pompidou, Parigi, 1981), «Arte italiana. Presenze 1900-1945» (Palazzo Grassi, Venezia, 1989), «Italian Metamorphosis 1943-1968» (1994-95) al Solomon R. Guggenheim Museum di New York.
Museo di cui Celant è stato lungamente senior curator, prima di essere il direttore artistico di Fondazione Prada, dove nel 2018, a Milano, ordinava il monumentale itinerario di «Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943», la mostra con cui si chiude il volume The Story of (my) Exhibitions. Ci lavorava dal 2017 e quando, un anno fa, il Covid l’ha sconfitto, il lavoro era di fatto concluso.
Tanto che il robusto volume va inteso sì come la ricognizione del percorso della sua pratica curatoriale, ma anche come una sorta di testamento intellettuale. Lo spiega lui stesso nell’intervista (di Studio Celant) che introduce la sequenza delle 34 mostre-cardine del suo percorso: «È un libro sulla [mia] logica dell’esporre, che dal 1967 ha subito diverse articolazioni, in una trattazione della storia dell’arte basata prima su idee e interpretazioni personali e poi sui fatti e i documenti, sempre attuando una prospettiva integrale e globale, dove i confini tra i linguaggi sono superati».
Celant ha, infatti, anticipato gli sconfinamenti fra linguaggi diversi, penetrando nei territori della moda, della musica, del cibo: «una visione sferica», cui concorrono «ricostruzione, contestualizzazione e pluralismo linguistico». Fino all’estremo grado di ricostruzione rappresentato dai «reenactment» di mostre epocali: per tutte, «When Attitudes Become Form» di Harald Szeemann (Kunsthalle Bern, 1969), ricostruita in Fondazione Prada a Venezia nel 2013.
Esito naturale, questo, della svolta impressa alla sua pratica curatoriale con l’uso sempre più largo non solo dei documenti scritti ma di fotografie d’epoca. Perché queste, spiegava, «sono l’unico documento reale, non astratto, cui ancorare la scelta dei lavori d’arte da esporre», eludendo così le secche dell’idealismo, fondato sul concetto di capolavoro senza spazio né tempo, ed evitando «l’interpretazione teorica e ideologica, creativa e analogica del curatore». Il metodo del fact checking, della verifica dei dati e dei documenti: proprio come nello studio dell’arte antica.
Germano Celant. The Story of (my) Exhibitions
a cura di Germano Celant, lingua inglese, traduzione in italiano di Cristina Pradella, 5.557 pp., 325 ill., Silvana Editoriale con Studio Celant, Milano 2121, € 70
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