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Da sinistra, Leoncillo ritratto in studio accanto a una sua opera e la ceramica invetriata «Sirena» (1939)

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Da sinistra, Leoncillo ritratto in studio accanto a una sua opera e la ceramica invetriata «Sirena» (1939)

La scultura si fa con le mani

Quella italiana è in piena ascesa e Leoncillo è un protagonista del boom: la non replicabilità, secondo Marco Fabio Apolloni, è il suo valore aggiunto

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Franco Fanelli

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La scultura italiana sta ottenendo una giusta collocazione nel mercato internazionale. Emergono i grandi «modellatori»: Medardo Rosso, ma anche Lucio Fontana e Leoncillo (Leoncillo Leonardi, Spoleto 1915 - Roma, 1968). Se sino ad aprile la Galleria dello Scudo di Verona ne espone la produzione più nota, in tre sedi, sino al 28 febbraio, Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli (che a Roma dirige la galleria Il Laocoonte), rivelano il Leoncillo preinformale ma che già prelude alla stagione «astratta». In mostra 23 ceramiche e 100 disegni (questi, però, datati sino al 1968), con un catalogo in due volumi edito da De Luca.  È il frutto di tre anni di studi e di ricerche, spiega Apolloni, durante i quali il curatore Enrico Mascelloni è stato «il nostro Virgilio».

Come si compone la mostra?

Ci siamo occupati di quelli che Leoncillo chiamava «gli anni buttati». Definiva così tutto quello che aveva fatto prima del 1956, quando si dimette dal Partito Comunista ed entra in crisi anche stilisticamente. Stiamo quindi parlando di tutta la parabola figurativa fino alle soglie dell’astratto, anche se Enrico Mascelloni non vuole che si parli di astratto nel caso di Leoncillo.

Perché?

Perché non è mai un’astrazione vera. Anche Leoncillo «astratto» riproduce la natura: lave, forme geologiche, tronchi schiantati dal fulmine, cose di questo genere. Secondo lui erano sempre qualche cosa, non era una «delectatio morosa» astratta, generica, ma qualcosa che lui sentiva. In mostra c’è anche un gruppo di disegni del periodo non figurativo (lo definiamo così per semplificare) perché abbiamo voluto illustrare tutta la sua carriera almeno sulla carta. Per quel che riguarda le sculture invece si parte dai primissimi saggi di maioliche: ci sono due formelle delle Favole di Esopo che ci sono state date dagli eredi, c’è la «Sirena» del 1939 che è l’ultimo suo «mostro» rimasto in mani private. Oltre alla Sirena, Leoncillo modellò l’«Arpia», che apparteneva a Cesare Brandi, e l’«Ermafrodito», entrambe alla Galleria Nazionale di Arte moderna. La sua Sirena è una signora un po’ puttanesca, molto debitrice alle donne di Scipione, ma, vista in maiolica a tre dimensioni, è una creazione unica nel panorama dell’arte italiana del periodo.

Chi erano i collezionisti di Leoncillo di questo periodo?

Gli amici. La «Sirena» era di Amerigo Terenzi, il fondatore di «Paese Sera», nonché rifondatore dell’«Unità». Altre opere che presentiamo vengono dalla collezione di Raf Vallone che aveva cominciato come calciatore del Torino, è stato redattore all’«Unità» e poi ha fatto l’attore.

Emergono novità dalla mostra?

Di un artista che è morto le novità sono ciò che viene riscoperto e reinterpretato. Ci sono pezzi inediti. C’è una bellissima balaustra che viene da una collezione privata e la cui gemella credo sia nella raccolta della Banca d’Italia; ci sono oggetti appartenuti allo stesso Raf Vallone che nessuno aveva mai visto prima: un servizio da tè di cui non si conoscono altri esemplari, mentre se ne conoscono per quello da caffè, che pure esponiamo, tazze che uno potrebbe vedere solo dopo aver preso l’Lsd, oggetti da incubo ma temperati dall’umorismo. Lui amava queste cose, ne ha fatte tante e tante ne ha distrutte. Le dava a chi lo ammirava e solo gli amici lo ammiravano, gente la più inaspettata. Ci sono testimonianze di contemporanei, compresi operai che andavano a chiedergli delle cose e le pagavano con gioia perché capivano la sua arte. Leoncillo ha infatti una componente, non dico artigianale, ma manuale. È una sua costante di sincerità e di onestà intellettuale: chi era della stessa razza lo capiva. Leoncillo non ha fatto l’astratto per farsi notare, è un caso che abbia coinciso con il Pop, con l’Action Painting, in lui c’era una sincerità che gli altri non avevano. Operava perché sentiva qualcosa che lo spingeva verso questo sviluppo e lui era cosciente di essere l’ultimo scultore italiano.

Che cosa voleva dire per lui essere l’ultimo scultore italiano?

Nessuno avrebbe capito più la materia in quel modo, nessuno avrebbe più potuto operare in quel modo perché stava vincendo un’arte che era tutt’altro, non era scultura. Quello che è venuto dopo è stato un affidare ad altri la realizzazione delle opere. Leoncillo non si sarebbe mai sognato di fare altrettanto. In questo senso è veramente l’ultimo scultore, o meglio modellatore, che ha lavorato con le mani. Poteva fare anche il pittore, anzi il dubbio è che Leoncillo sia un pittore prestato alla scultura. È l’unico che ha usato il colore in scultura in questo modo.

Ci sono delle forti relazioni con Fontana.

Si sono sfiorati e si sono influenzati a vicenda perché entrambi erano entrati nell’orbita di Gio Ponti, si sono visti negli anni Trenta alla Triennale di Milano. Molto più tardi, quando Leoncillo è ancora un artista figurativo, Fontana espone con lui nella stessa sala della Biennale di Venezia: Leoncillo vede i tagli e i buchi del collega e ne rimane un po’ traumatizzato. Forse Fontana in quel momento gli ha dato la licenza di cambiare. Però io credo che siano due personalità completamente diverse. Fontana era uno scultore che si considerava fallito perché non aveva avuto il successo come avrebbe desiderato. Mi raccontava Piero Chiara, anche se le parole di un romanziere sono da prendere con cautela, che Fontana era disperato per un successo che lui avrebbe voluto come scultore di ceramica, non come tagliatore di tele. L’idea di essere diventato milionario per una cosa fatta a caso e che è stato costretto a ripetere fino alla morte. E oltre, visto che la riproducibilità delle opere di Fontana è un pericolo a cui nessuno può porre rimedio. Invece fare un Leoncillo falso è molto più difficile.

E che cosa mi dice del rapporto con Medardo Rosso?

Da ragazzo Leoncillo andò a vedere una mostra di Rosso a Roma e ne tornò completamente «medardizzato». C’è un ritratto di una zia, conservato nei depositi del Museo di Spoleto, che è un vero «finto Rosso». Ma con Rosso torna il problema della riproducibilità. Ciò che mette al riparo Leoncillo è la materia: se da una ceramica si fa un calco e poi si cuoce, diventa più piccolo, quindi i falsi sarebbero fatalmente più piccoli degli originali. Spero che questo ci preservi da brutte soprese.

Ma circolano falsi Leoncillo?

Leoncillo ha avuto allievi capaci di fare cose simili ma c’è anche un aspetto da tenere in considerazione, quello dell’invenzione: si può falsificare il modo, ma non l’intelligenza di un artista come lui. Le sue invenzioni sono già realizzate pienamente nei disegni (noi ne esponiamo ben cento di un corpus in corso di catalogazione), che sono a un tempo opere d’arte e non solo appunti, ma anche già un archivio della sua arte. Ed è straordinario come la grande capacità d’invenzione che esprimono le carte coincida perfettamente con la creazione ceramica. Perché la ceramica è una cosa così casuale, emotiva, dettata anche da quello che gli smalti potranno darti in forno, magari tradendo il desiderio dell’autore.  Invece è fenomenale vedere i disegni preparatori così uguali all’opera finita. E questa è una capacità che è di un grande artista, che nessun imitatore può raggiungere.

Qual era il suo rapporto con gli allievi?

I suoi allievi lo aiutavano ma non creavano al posto suo. Lui lavorava sempre d’istinto, di getto, con un rapporto con la materia quasi violento. In questo un po’ si apparenta al taglio di Fontana. È un temperamento che si vede nella creta ed è appena nascosto dallo smalto. Bisogna vedere le foto delle crete fatte allora, in corso d’opera, quando sono ancora umide e sono molto tormentate. Lo smalto colorato gli ha dato una patina che le addolcisce, però Leoncillo era un estroso, un istintivo nella creazione.

Come risponde il pubblico a questa proposta di un Leoncillo forse meno noto?

Il pubblico si divide in due categorie. Quelli che lo conoscevano e lo apprezzavano e amano rivederlo. Quelli che non lo conoscevano e non possono non amarlo perché vedono una cosa bella, colorata, rutilante, attraente. Non c’è da fare sforzi, non c’è da superare disgusti per amare Leoncillo. Forse nella parte astratta era più difficile ma noi (Enrico Mascelloni, Monica Cardarelli ed io) siamo soddisfatti di essere riusciti a raccontare attraverso le carte e le ceramiche la storia dello sviluppo di Leoncillo in un modo che chiunque può comprendere guardando solo le opere. E raccontare come egli sia infine diventato, da figurativo che era, una specie di vulcano che erutta dei massi incandescenti senza forma ma con una drammaticità che può esprimere solo una grande forza della natura, un vulcano appunto, un terremoto, un fulmine.

Come colloca Leoncillo nella linea della sua galleria?

Io mi divido tra due gallerie: la galleria W. Apolloni che è una galleria antiquaria e la Galleria del Laocoonte diretta da mia moglie Monica Cardarelli, che si occupa dell’arte italiana dal Novecento al 1950. Io mi sono affezionato al Novecento solo quando è diventato «il secolo scorso». Allora, da antiquario mi sono sentito autorizzato a occuparmene. Questa mostra è divisa in tre luoghi: la mia nuova galleria di via Margutta, in spazi che sono stati creati per essere atelier di scultore, quindi grandissimi e perfetti per esporre opere d’arte. In queste sale fino al 1937 c’era l’Accademia Britannica di Belle Arti. In via del Babuino, in un piccolo negozio, un temporary store, abbiamo messo tutte le creazioni di arte applicata, quando Leoncillo lavorava per decorare cinema, teatri, bar, ristoranti. Per lunghi anni, infatti, Leoncillo ha lavorato su commissione. Per me questo è uno degli aspetti più interessanti perché stiamo parlando di un artista che deve rispondere anche alla domanda di un committente che lo paga per fare un’opera con cui dovrà convivere. La committenza è sempre stata importante. È sempre stata qualcosa che ha aiutato lo sviluppo dell’arte, l’artista da solo può perdersi. Tornando alla mostra, c’è una terza sede, che è la Galleria del Laocoonte in via Monterone dove sono esposti i disegni della fase ultima, dal ’56 al ’68, ovvero l’arte visibilmente più drammatica di Leoncillo. La Galleria del Laocoonte prende il nome dalla grande scultura del ’500 al centro della sala, il Laocoonte di Vincenzo De Rossi. È impressionante vedere come alla sofferenza del sacerdote troiano e dei suoi figli i disegni rispondano come l’eco di una stessa voce.

Porterete la mostra a Londra?

Mi piacerebbe portarla all’estero. Sarebbe una sfida scriverne in inglese.

Perché?

Perché i nostri testi di storia dell’arte tradotti in inglese non hanno senso. La maggior parte della nostra critica d’arte è intraducibile in inglese perché non sarebbe possibile dissimulare la fuffa che c’è dietro. Sarebbe una bella ambizione poter raccontare in modo semplice l’arte del Novecento italiano senza retorica, senza figure troppo fantasiose affinché gli stranieri possano capire che tutto il Novecento italiano è interessante quanto il loro, se non di più in certi casi. Volgarizzazione non è una parolaccia; significa scrivere per le masse. Non si può leggere Longhi a 300mila persone se non per la bellezza del suono della sua scrittura. Non parliamo di Argan o di Calvesi. Quello che dicono su Leoncillo è puro delirio. È incomprensibile come queste cose possano essere state accolte con serietà.

Il mercato di Leoncillo è in crescita anche per la produzione precedente gli anni Cinquanta?

Esponendone i disegni crediamo di aver contribuito a una ripartenza per una valutazione degna di queste opere. Non aveva senso che una ceramica costasse un milione di euro e un disegno mille-2mila euro.

E ora?

Possiamo andare da 4mila euro a oltre 20mila. In un certo senso mi dispiace che le quotazioni di Leoncillo salgano, perché così ne potrò comprare sempre meno! Ma i periodo di crisi hanno questo di bello: ci si possono togliere degli sfizi che in periodi di maggior sviluppo dell’attenzione su certe opere o artisti sarebbero irraggiungibili.

Da sinistra, Leoncillo ritratto in studio accanto a una sua opera e la ceramica invetriata «Sirena» (1939)

Franco Fanelli, 20 febbraio 2019 | © Riproduzione riservata

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