«Figura femminile che danza sotto un albero» (h 16,1 cm), placca in avorio inciso del I secolo d.C. dal cosiddetto «Tesoro di Begram»

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«Figura femminile che danza sotto un albero» (h 16,1 cm), placca in avorio inciso del I secolo d.C. dal cosiddetto «Tesoro di Begram»

La luce guida di Johnny Eskenazi

Il conflitto dell’hippy coltissimo con i «talebani» ostili al collezionismo: per lui la ricerca è sempre stata importante quanto il commercio

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Anna Somers Cocks

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Da quasi mezzo secolo è l’emblema dello studioso in equilibrio sul filo del rasoio con il mercante che ha individuato nell’arte orientale una fonte di bellezza e spiritualità anche per la cultura occidentale. Ora ha due nemici: i governi nazionalisti e gli ostinati oppositori di qualsiasi commercio di antichità.

«Ricordo che stavo seduto su una terrazza a Nizza con mio zio e un suo vecchio amico, entrambi ottantenni. Hanno iniziato a discutere sul senso della vita  sparando detti, aneddoti e riflessioni, come una mitragliatrice, in tante lingue diverse». Quel modo di essere, cosmopolita, filosofico ma astuto, è ciò che ha formato il mercante d’arte Johnny Eskenazi, nato nel 1949 in una famiglia ebrea sefardita secolarizzata, di origine ottomana con interessi commerciali dall’Austria all’Italia al Regno Unito. «Era un ambiente molto affettuoso e rassicurante. C’era un esercito di parenti che arrivavano ​​da tutto il mondo. Parlavamo principalmente francese e italiano a casa, ma inglese con mio padre, che era stato un ufficiale dell’Intelligence nell’esercito britannico durante la guerra»*.

Eskenazi è cresciuto in un’Italia che si stava modernizzando e sviluppando con la stessa velocità dell’odierna Cina. La galleria di famiglia, fondata nel 1925 e specializzata in porcellane cinesi ed europee e in tappeti, aveva sede a Milano. L’educazione di Johnny è stata caotica, da un asilo francese a una scuola statale (dove, per la prima volta, sentì le parole «sporco ebreo»), a una scuola internazionale, dove il suo migliore amico era un iracheno che mangiava cipolle crude a pranzo; infine, una scuola americana. Tre suoi compagni morirono in Vietnam. Dopo un anno a Londra, è tornato in un’Italia trasformata dalla rivoluzione del 1968, anarchica, a tratti violenta, ma creativa e idealista. Studia scenografia all’Accademia di Brera e il teatro diventa una passione. Collabora con il Piccolo Teatro di Milano: «Sognavo di diventare apprendista di Peter Brook e poi regista, ma mio padre aveva bisogno di me in galleria», ricorda.

Tuttavia, all’epoca il richiamo dell’Oriente era forte e  così, zaino in spalla, fa lunghi viaggi attraverso la Turchia, l’Iran, l’Afghanistan, l’Himalaya e l’India: «Allora era sicuro se sapevi come comportarti. Lì mi sentivo in perfetta sintonia con me stesso, mentre a Milano la gente era convinta che fossi diventato un hippy drogato», racconta. Fu durante questi viaggi che entra in contatto con una spiritualità che lo ha influenzato per il resto della sua vita, senza però tentarlo ad adottare nessuna delle religioni orientali, perché dice che sarebbe stato come travestirsi.

A 26 anni inizia a lavorare sul serio e organizza in galleria una mostra dopo l’altra, introducendo i milanesi all’arte indiana e himalayana che non avevano mai visto prima, come nel caso della sua mostra del 1977 di arte tantrica buddhista e indù, la prima in Italia, visitata dai seguaci di Hare Krishna che tintinnavano i loro cembali e si inchinavano davanti alle opere esposte. A differenza di suo padre, che era un conoscitore ma non uno studioso, per Johnny la ricerca è sempre stata importante quanto il commercio, come si vede dalla qualità dei suoi cataloghi.

Nel 1988 pubblica il suo grande libro, Il tappeto orientale (Allemandi), giunto all’ottava edizione e tuttora insuperato, che ha scritto perché sentiva il bisogno di mettere un po’ di ordine in un campo molto confuso. Ma l’arte che amava non combaciava con il gusto italiano. Mentre ci sono stati grandi collezionisti italiani di tappeti, dice, la scultura orientale non piace «se non in modo decorativo kitsch», e quasi nessun museo era interessato.

Circondato da altri galleristi e dai facoltosi milanesi, si è sempre sentito un po’ in disparte, dice, ammettendo che questo può farlo sembrare uno snob; così finalmente, nel 1994, lascia Milano per Londra: «Il  fattore decisivo fu l’ascesa al potere di Silvio Berlusconi, con il suo fascismo stupido». L’attrazione per la Gran Bretagna invece era rappresentata dal suo cosmopolitismo, dal rapporto di reciproco rispetto esistente tra curatori, studiosi e commercianti, e da un mercato molto più ampio, che includeva i curatori statunitensi che arrivavano regolarmente per comprare.

Non è una esagerazione dire che la sua galleria sopra Colnaghi in Old Bond Street fu una novità sensazionale. Era elegantissima, Johnny era informale e accessibile ma dotto, le opere scultoree esposte nella mostra inaugurale del 1995, «Images of Faith: Buddhist Art», e quelle proposte successivamente erano spettacolari. Così la sua galleria diventò una tappa obbligata per curatori e collezionisti per i successivi 15 anni circa.

Johnny ha venduto a oltre 40 istituzioni, dal British Museum all’Asian Civilisations Museum di Singapore, ma 18 di queste erano negli Stati Uniti, un mercato che ha coltivato con cura visitandole una per una, perché non c’è dubbio che è anche un esperto uomo d’affari. Capì anche che la collaborazione rende più forti, così, nel 1997, con Michael Spink, ha dato vita all’Asia Art Week per le gallerie d’arte asiatica a Londra, e poi anche a New York, seguita nel 2004 dalla London Sculpture Week.

La reputazione di Johnny come studioso è tale che è stato in grado di percorrere in perfetto equilibrio la linea che in genere separa il mercante dal curatore, come testimoniano la sua mostra sulle arti di corte dell’Iran safavide all’Asia Society di New York e al Museo Poldi Pezzoli e al Palazzo Reale di Milano nel 2003-04, e quella dei bronzi di Chola alla Royal Academy di Londra nel 2007. Perché negli anni Novanta e 2010 i musei volevano acquistare da lui? Le ragioni, come sempre nella storia del gusto e del mercato dell’arte, sono complesse: una crescente consapevolezza economica e politica del mondo oltre l’Occidente; ricchi collezionisti che nei loro anni hippy avevano incontrato le religioni orientali; la rarità di capolavori dell’arte occidentale, e alcuni studiosi eccezionali come Pratapaditya Pal che rendevano l’arte orientale intellettualmente eccitante.

Ultimo, ma non meno importante, il fatto che l’arte contemporanea non era ancora diventata un’ossessione mainstream e un’opportunità di investimento. Ma oggi i musei hanno quasi smesso di collezionare nel suo campo e ci sono pochi nuovi collezionisti privati. La convenzione dell’Unesco contro il traffico illecito esisteva dal 1970, ma è stato solo alla fine degli anni 2010 che i musei hanno iniziato a guardare con sospetto a qualsiasi antichità che non avesse una provenienza documentata da prima di quella data.

Un evento spartiacque è stato, nel 2005, l’incriminazione della curatrice di antichità del Getty Museum Marion True da parte del Governo italiano con l’accusa di acquisto di opere d’arte saccheggiate. Questo è stato preso molto sul serio dagli avvocati dei musei statunitensi, e la tesi precedente in base alla quale i musei statunitensi hanno acquistato, ovvero che un oggetto era «innocente a meno che non fosse provata la sua colpevolezza», è cambiata in «tutti sono colpevoli a meno che non sia provata la loro innocenza». Il cambiamento nel clima legale è stato rinforzato dalle guerre in Afghanistan e in Medio Oriente, in particolare la seconda guerra del Golfo (2003-11), con il saccheggio da parte degli iracheni del Museo Nazionale a Baghdad, e successivamente l’iconoclastia e i saccheggi da parte dell’Isis.

Da allora, l’Unesco ha trasformato la questione delle antichità saccheggiate in un’importante campagna con una conseguente notevole riduzione nell’appetibilità di tutte le antichità, anche se è stato dimostrato che l’organizzazione esagera molto le stime del valore del mercato di beni saccheggiati (cfr. articoli a pp. 6-7).

Johnny si è rassegnato a un mercato in declino, pur vendendo ancora ad alcuni musei e collezionisti privati.  Si dedica alla ricerca, sponsorizza simposi e libri e aiuta le Arghosha Faraway Schools in Afghanistan e l’istruzione delle donne in India. «Sento che il mondo è in un tale caos perché l’istruzione in generale è pessima, afferma. In Occidente i metodi di insegnamento sono obsoleti, quindi i giovani sono apatici».

È costernato da quello che definisce l’atteggiamento talebano di alcuni attivisti occidentali contro tutto il collezionismo nel campo delle antichità, rafforzato dai politici dei Paesi di origine che sfruttano la questione per ragioni nazionaliste. Ad esempio, insieme al British Museum, Johnny aveva contribuito a finanziare un programma di formazione per curatori indiani che per due anni ha avuto molto successo ma è stato poi fermato dal Governo indiano perché lo considerava contaminato dal colonialismo. Niente, tuttavia, lo ha sostituito, quindi a perderci è stata l’India.

Una storia più felice è quella del rimpatrio degli avori Begram, nella quale Johnny stesso è stato un attore chiave. Queste piccole, rare e squisite sculture del I secolo d.C. furono saccheggiate negli anni Novanta dal Museo di Kabul per ordine di alcuni politici pakistani. Recuperarli sul mercato nero era potenzialmente pericoloso, costoso e legalmente delicato, ma Johnny sapeva che erano oggetti troppo importanti per lasciarli semplicemente sparire. Basti ricordare che sono arrivati al British Museum, dove sono stati conservati ed esposti brevemente nella mostra del 2011 «Afghanistan: Crossroads of the Ancient World», e che nel discorso di apertura Hamid Karzai, presidente dell’Afghanistan, ha ringraziato Johnny per il suo contributo al patrimonio afghano.

Gli avori sono poi stati restituiti senza clamore all’Afghanistan grazie a un volo militare britannico e ora sono esposti nel museo ricostruito di Kabul. Ma una simile soluzione richiede flessibilità e buona volontà, e Johnny teme che nelle guerre culturali queste qualità raramente possano prevalere. La rigida applicazione della data limite del 1970 della Convenzione Unesco esclude tante opere d’arte che sono uscite dai loro Paesi di origine molto prima, ma i cui proprietari potrebbero non aver mai pensato di conservarne la prova. Questi oggetti sono ormai diventati quasi invendibili.

La conseguenza, dice Johnny, è che ora esiste un’intera generazione di opere d’arte orfane, di proprietà di anziani collezionisti che non possono né venderle né lasciarle in eredità né prestarle a un museo, il che non va a vantaggio di nessuno. Cita le parole del Dalai Lama nel 1992 dopo che i cinesi avevano distrutto i santuari tibetani: «L’arte appartiene a chi per ora può occuparsene». Questo ovviamente non significa dare via libera ai saccheggiatori, ma vuole consentire la custodia pubblica, anche solo temporanea, di opere d’arte che sono state sradicate dal loro luogo di origine.

Neil MacGregor, ex direttore del British Museum, dice di Johnny: «È un amico leale e generossisimo. Quando fa una donazione, cosa che succede spesso, lo fa senza esitazione e senza il minimo desiderio di essere riconosciuto pubblicamente. Nel caso degli avori di Begram è stato davvero magnifico».

Per quanto riguarda il suo percorso di vita, Johnny riconosce che ha avuto una luce guida: «Potete considerarmi un hippy attempato, ma ho sempre sperato che le persone che entrano in contatto con quest’arte impareranno un po’ della spiritualità delle religioni orientali. Dopo tutto, la diffusione del Buddhismo avvenne solo in parte attraverso i monaci ma anche attraverso le immagini di Buddha, il ricordo del suo grande esempio».

«Figura femminile che danza sotto un albero» (h 16,1 cm), placca in avorio inciso del I secolo d.C. dal cosiddetto «Tesoro di Begram»

«Donna seduta con una ciotola» (h 7,9 cm), placca in avorio inciso del I secolo d.C. dal cosiddetto «Tesoro di Begram»

John Eskenazi

Anna Somers Cocks, 17 gennaio 2021 | © Riproduzione riservata

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