La clemenza di Tito

Un grande scultore partenopeo dimenticato: Tito Angelini

Tito Angelini, Monumento funebre a Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia, 1831, particolare del Compianto. Napoli, Chiesa di San Ferdinando. Foto © Luciano e Marco Pedicini
Stefano Causa |

Tito Angelini è il segreto meglio custodito dell’arte meridionale. Tra chiese, piazze, conservatori, cimiteri, ville, palazzi reali o teatri le sue sculture si sono conquistate il diritto all’invisibilità. In una grande foto di Mimmo Jodice (il Tempietto in Villa Comunale a Napoli) il busto di Virgilio di Angelini è visto di tergo, crepato dinanzi alla grata. Il Neoclassicismo funziona se di spalle.

Roberto Longhi ha instillato nei suoi interlocutori che l’unico Ottocento da considerare odori di realismo (beninteso caravaggesco) e che, riempito di passione e svuotato di retorica, sia un centennio da tenersi a debita distanza. Un Ottocento che fa a meno dell’Ottocento: e che, preferibilmente, non parli italiano, figurarsi panneggiato all’antica in dialetto napoletano! Ma che gli vuoi dire a uno dalla tecnica spaventosa come Angelini? Uno che comincia sulle pesti di Canova e continua scandendo i termini dell’oratoria civile e sacra nelle occasioni pubbliche, toccando le corde più intime nei ritratti? Che la scultura funzioni come suggerimento del melodramma è idea che mutua da Hayez, ma con uno scatto puristico tale da renderlo il solo interlocutore meridionale degno di un Bartolini.

Per la tenuta del lavoro e la capacità di imporsi su mercati extralocali, dalla Sicilia alla Grecia, da New Orleans a San Pietroburgo, è, con buona pace di Verdi che gli preferiva Morelli, il napoletano di maggior appeal tra Giordano e Gemito. D’altronde la scultura dell’Ottocento si studia all’ombra dei cipressi come sapevano i Joy Division che scelsero, per la copertina del loro ultimo album, il cimitero di Staglieno. E anche Angelini ha ottime cose al gran quadrato di Poggioreale. Certo hai voglia di svevi, angioini, aragonesi e rinascimento meridionale più o meno umbratile.

A Napoli sembra che Caravaggio non se ne sia mai andato: e, stando alle ultime nuove da Madrid, non si vede ancora come farlo ripartire. In questo menu a una sola portata Angelini è un fantasma bibliografico. Si provvede a questa lacuna con il libro di un’eccellente storica d’arte, Almerinda Di Benedetto, che da anni lavora sulle cose di Napoli che tutti guardano e nessuno vede. Una signora monografia, di solido impianto saggistico e che leggeremo, innanzitutto, come atto di clemenza filologica.

Ai nostri genitori un volume su uno scultore napoletano che non fosse Gemito sarebbe parsa una stravaganza. Poi certo c’è stata la rottura degli argini quando, nel 1985, i francesi sdoganarono la porzione accademica del ventennio di Napoleone III nel d’Orsay, ex stazione dove, mentre tutti si aspettano il treno, arrivano sculture che, fino ad allora, conoscevano quattro o cinque ricercatori al mondo.

Ecco: nella navata del museo Angelini non avrebbe sfigurato anche a non considerare che, a fine anni 1840, fece il bravo viaggio parigino, schivando le superfici spatolate di Courbet e guardando i murali sacri dei Flandrin (cui lo apparenta lo stesso interesse per il Gotico latino). Ma è Napoli la palestra di questo figlio d’arte, professore di scultura per trent’anni all’Istituto di Belle Arti di Napoli.

All’altezza del 1831 il sepolcro di Lucia Migliaccio è uno dei capolavori sconosciuti della scultura italiana. Peccato che, nella Chiesa di San Ferdinando la scrittura finissima e dolente di Tito venga schiacciata dal solito ricatto barocco delle statue di Lorenzo Vaccaro, incombenti a un metro. Due anni dopo, nei pressi della chiesa, sarebbe approdato il non più giovane, ma sempre meraviglioso, genio stortignaccolo di Recanati. Leopardi a parte, Angelini fa la parte del leone nel consesso di statue di San Francesco di Paola a Napoli; mentre a Catania si permette di ripensare, da pari a pari, alle fontane seicentesche di Naccherino.

Come sempre i fuochi d’artificio sono in coda. Nei rilievi in gesso patinato a finta terracotta con le vittime del 1799, oggi al Museo di San Martino, supera (a sinistra) le velleità veristiche dei napoletani e, in un trattamento della materia vibrante si propone, alla fine degli anni Sessanta, come l’anello mancante tra il tremendo impasto dei seicenteschi e un lavoro, stile Gomorra, come la «Rissa» di Michele Cammarano coi morti ammazzati, le coltellate e le sedie rovesciate.

Insomma: val la pena di tentare una controstoria dell’Ottocento mettendosi dalla sua parte. Gusto classico e scarto verso il vero fotografico. Angelini naviga tra opzioni apparentemente opposte. Ma nelle camicie di forza dell’eclettismo e di un classicismo senza neo (e nei) rischia di soffocare. Per il resto abbiamo portato il genio caravaggesco di Gemito al Petit Palais nel 2019, suggerendo ai francesi che non si vive di solo Rodin. Tornerà mai Angelini a Parigi, magari costeggiando i campi elisi?

Tito Angelini. Committenza, produzione e mercato internazionale della scultura dell’Ottocento
di Almerinda Di Benedetto, 287 pp., ill. col. e b/n, Gangemi, Roma 2021, € 50

© Riproduzione riservata Tito Angelini, Baccante, 1863. Heliopolis, Cairo, Sultana Malak Palace Tito Angelini, Monumento a Dante Alighieri, 1871, particolare. Napoli, piazza Dante.
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