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Amit Sood, direttore del Google Cultural Institute

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Amit Sood, direttore del Google Cultural Institute

Il museo universale di Google

Amit Sood, direttore del Google Cultural Institute: «All’inizio si temeva che internet sostituisse l’esperienza reale. Ora sappiamo che, stimolata dalle visioni digitali (realtà virtuale e aumentata, immagini 3D...), più gente vuole vedere arte»

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Anna Somers Cocks

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Amit Sood, il direttore del Google Cultural Institute e dell’Art Project nato nella metropoli indiana di Mumbai, mi mostra al computer un programma che avrebbe fatto urlare di gioia i surrealisti. È X Degrees of Celebration degli artisti Mario Klingemann e Simon Doury, che utilizzano algoritmi di visione al computer per creare connessioni casuali tra due  opere d’arte qualsiasi, come un gioco di «cadavres exquis» elevato alla centesima potenza.

È un prodotto della loro sezione «Experiments», in cui inseriscono artisti oggi all’avanguardia nel campo della tecnologia e li connettono con il loro database di immagini e i loro musei partner in modo da farli collaborare. Fa parte del Google Arts & Culture, il settore non profit di Google fondato nel 2011 nell'ambito del Google Cultural Institute per digitalizzare le opere d’arte nei musei. Evita di proposito di specificare il termine «cultura», tanto che nel 2016 il progetto ha aggiunto ai suoi ambiti la storia naturale, ma non fa cultura popolare «perché molti altri la fanno», ha detto Sood. Oggi hanno attivato collaborazioni con 1.500 musei e istituzioni pubbliche in 70 Paesi.

La Google Art Camera scatta immagini in una risoluzione così alta da poter vedere le più minute pennellate di un dipinto o la più infinitesima complessità di un ricamo; fornisce l’esperienza più vicina al «toccare con mano» un’opera d’arte senza in effetti alcun contatto.

Anche i musei possono caricare le loro immagini e nella piattaforma ci sono ora sei milioni di fotografie: video, manoscritti e altri documenti d’arte, cultura e storia, comprese centinaia di migliaia di immagini ad alta risoluzione di opere d’arte. Sono  presentate istituzione per istituzione, mostra per mostra (ce ne sono 6mila), o in «storie», organizzate da Google e dalle 1.500 istituzioni partner.

Le «storie» stanno diventando sempre più elaborate, alcune sono dei minidocumentari, con video, musica, presentatori e testi. Quella sul Guggenheim di Bilbao contiene un film di un free runner che salta da una trave all’altra facendo salti mortali sulla scultura di Richard Serra, oltre a una più convenzionale presentazione di capolavori della collezione con ottime didascalie.

Una spiegazione dell’arte contemporanea e delle donne che hanno cambiato la storia dell’India sono soltanto due delle migliaia di soggetti affrontati. L’ultimo è «We Wear Culture», che unisce le collezioni di moda di 185 musei e racconta la storia dello stile da decine di diversi punti di vista. Google Arts & Culture è così diventata molto più che un mero riproduttore di collezioni artistiche ed è ora un importante produttore di contenuti culturali con un’enorme visibilità su social media e app (che hanno avuto più di un milione di download) e con 50 milioni di utilizzatori del sito Arts & Culture. A ciò si aggiungono 500 milioni di ricerche al mese relative ad «arte» sul sito di Google, e il suo team sta lavorando per rendere quell’esperienza migliore anche per loro.

Tutto è iniziato perché da sempre i dipendenti di Google dedicano il 20% del loro tempo a concepire nuovi progetti vantaggiosi per la società. Fu Amit Sood, che all’epoca lavorava come ingegnere, a suggerire un’idea a Nick Serota, allora direttore della Tate, a Tom Campbell, allora direttore del Metropolitan, e a Glenn Lowry, direttore del MoMA. Sood sosteneva di amare i loro musei dopo avere scoperto che non erano soltanto rivolti a gente snob: perché quindi non aprirli di più? Avrebbe voluto vedere la «Notte stellata» di Van Gogh del MoMA da casa, bevendo un bicchiere di vino, ma non delle dimensioni di un francobollo e di scarsa qualità come si trova nella ricerca di immagini di Google. «Voglio una versione bella, magnifica e voglio che il vostro curatore me ne racconti la storia. Voglio un’esperienza, e quando avrò il tempo di venire a New York, andrò a vedere l’originale. L’abbiamo quindi proposto ai vertici aziendali. L’hanno giudicato perfettamente in linea con la missione».

Qual è la missione di Google?
È rendere le informazioni accessibili e organizzarle in modo efficace e il modo in cui all’epoca misi la pulce nell’orecchio di Eric Schmidt (allora ceo di Google, Ndr) fu dicendo: «Lei crede che il mondo della cultura sia organizzato?». E lui rispose: «No, non credo». Dissi: «Allora pensa che sia accessibile?». E lui: «No, per niente». Conclusi: «E beh, le pare una bazzecola?». Era una delle persone che pensavano che questa dovesse essere una missione giusta; dobbiamo concepirla come un team non profit, con la sua propria indipendenza, il suo proprio atto costitutivo, per così dire. Dunque non l’ho ideata in un colpo solo ma passo dopo passo. Quando nel 2011 avviammo il progetto con i musei, la gente disse: «Sostituirà l’esperienza fisica», ma nel corso degli ultimi anni abbiamo verificato che più il digitale ha sposato la cultura e la cultura ha sposato il digitale, più è aumentata la frequentazione fisica delle istituzioni culturali. È molto difficile calcolare la correlazione diretta, ma si può vedere come il digitale abbia un impatto positivo, come la gente sia stimolata ad andare di persona. Perché dovrei accontentarmi di vedere un video di fuochi artificiali a Venezia? Voglio andarli a vedere dal vivo, altrimenti i fuochi artificiali del 4 luglio in America sarebbero solo un grande video.

Domanda chiave: chi detiene i diritti delle immagini?
Le istituzioni partner hanno tutti i diritti e il pieno controllo sulle loro immagini e sui contenuti che pubblicano nella piattaforma, e questo vale anche per le immagini scattate con attrezzature fornite da Google, come l’Art Camera, e per le storie realizzate con Google.

I musei che uso fanno delle vostre immagini ad altissima risoluzione? Anche come ausili didattici?
Dipende dalle dimensioni del museo. Quelli grandi, penso di sì: quando digitalizziamo le immagini, le usano nei loro programmi educativi e per guidare alcune delle loro discussioni interne e inserirle in altri loro programmi. Tuttavia possono anche collegarle a una storia più ampia che possono commissionare a noi. Molti di loro usano questa iniziativa anche per sviluppare i propri programmi digitali, quindi per alcuni grandi musei che sono già capaci di produrre molto per conto loro, siamo più come una guida iniziale. Il Metropolitan Museum ha recentemente annunciato la sua politica sulla disponibilità dei dati, ma ci ha detto: «Se non fosse stato per voi che avete digitalizzato e strutturato questi contenuti online non ce l’avremmo fatta». Molti, per esempio il Victoria & Albert Museum, utilizzano ora le immagini ad alta risoluzione anche per i social media.

Ora siete andati ben oltre la semplice digitalizzazione. Siete diventati produttori, in un certo senso.
La nostra attività principale rimangono le immagini, ma abbiamo un’idea interessante che deriva da queste. Al momento il nostro progetto più importante riguarda la moda e si chiama «We Wear Culture». È iniziato quando ci siamo resi conto che molti musei stavano inserendo oggetti di moda nella piattaforma, ma in modo non organizzato. Poi abbiamo incontrato Natalie Massenet, fondatrice del portale Net-a-Porter, Anna Wintour, direttrice di «Vogue America», e altre figure importanti nel mondo della moda, che hanno detto: «Wow, è tutto bello, ma perché non vengono raccontati e curati in senso museale? Perché sono inseriti soltanto come oggetti d’arte?». «Perfetto», abbiamo detto. E così è nato «We Wear Culture». Di tutte le cose che ho fatto, questa è quella che mi ha sorpreso di più, perché non mi rendevo conto di quanto fosse appetibile. Pensavo che sarebbero stati soltanto il Met, il V&A e pochi altri, ma si sono aggiunti 185 musei, la Parsons School of Design, il Central Saint Martins, il Kyoto Costume Institute, il Museo Salvatore Ferragamo ecc. È stato allora che abbiamo notato qualcosa di molto interessante: che è tutto molto frammentato e le scuole stanno facendo le loro cose, le fondazioni private le loro. I musei collaborano per le mostre, naturalmente, ma ci vuole tempo, mentre da noi è molto più facile innescare collaborazioni (cioè, è ancora difficile secondo gli standard di Google, ma è più semplice secondo gli standard dei musei). E ora il progetto riguarda principalmente le icone, i movimenti, le produzioni, l’arte, e immaginare come spingere il popolo di YouTube ad abbracciare la cultura. La nostra serie sul Grand Tour deriva dal desiderio di registrare e conservare una storia intangibile: per esempio, i fuochi artificiali della festa del Redentore a Venezia o il Palio di Siena. Abbiamo prodotto storie su Firenze, Venezia, Siena e Palermo e ci stiamo espandendo. Le finanziamo perché, se sono realizzate sotto l’egida del Google Cultural Institute, devono essere di natura non commerciale.

Come decidete quali progetti realizzare?
Non abbiamo una strategia in grado di definire da dove arrivi la domanda. Per il Grand Tour, sono stati determinanti tre aspetti: un team di italiani di Google molto appassionati che si interessano profondamente alla loro cultura e vogliono raccontare le loro storie, un forte sostegno sul campo da parte delle autorità e un grande coinvolgimento dei musei. Ora siamo alla ricerca di nuovi progetti da adottare in Italia.

Si tratta di progetti complessi e sofisticati. Avete redattori, curatori o sceneggiatori?
No, quello che abbiamo è un insieme di contenuti. Ciò che avviene è che questa base di contenuti arriva dai partner (i musei) e crea il corpus. Poi ogni partner ottiene l’accesso a uno strumento curatoriale e narrativo. I curatori diventano redattori, così il 95% di tutte le storie ora online sono state raccontate dai musei stessi. E poi, in alcuni casi, possiamo anche dare una mano. Per esempio, vogliamo presentare dieci animali con superpoteri. Non appartengono tutti a un solo museo, così ci siamo detti: «D’accordo, cerchiamo persone che vogliano scrivere la loro storia e mettiamole al lavoro». Così abbiamo una o due persone che lavorano con dei freelance per scrivere storie.

Sì, ma questo significa che siete una sorta di redattori/produttori, o di redattori/direttori.
Ma non editiamo i contenuti dei partner.

Però fornite loro le linee guida?
Molto chiaramente, ma la cosa fondamentale è che le idee devono provenire da loro, io non saprei che cosa scrivere. Noi forniamo le risorse. A volte tecnologiche e a volte finanziarie. E diciamo loro che cosa funziona se vogliono attrarre lettori online. Quattro anni fa, mentre mettevamo a punto il format narrativo, non era questo il genere di storie che ottenevamo; ci arrivavano prolissi testi accademici e poi i musei partner si lamentavano: «Nessuno li legge», dicevano. E noi: «Se volete che la gente li legga, dobbiamo iniziare dalle immagini; dovete fornire argomenti interessanti che la gente possa comprendere facilmente, perché vi state rivolgendo a un pubblico diverso». E così, sì: in questo senso diamo loro le idee.

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Google Cultural Institute

Amit Sood, direttore del Google Cultural Institute

Anna Somers Cocks, 12 gennaio 2018 | © Riproduzione riservata

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