I Greci e i Romani e la conoscenza delle stelle

Noi le conosciamo in maniera più approfondita grazie agli sviluppi dell’astronomia, ma allo stesso tempo le osserviamo con una frequenza minore e una distrazione maggiore

«Ulisse e le sirene» (1909) di Herbert Draper (particolare), Londra, Ferens Art Gallery, esposto nella mostra «Troia, mito e realtà», Londra, British Museum, 2019-20
Giuseppe M. Della Fina |

Noi conosciamo le stelle in maniera più approfondita dei Greci e dei Romani grazie agli sviluppi dell’astronomia, ma allo stesso tempo le osserviamo con una frequenza minore e una distrazione maggiore. Inoltre l’inquinamento luminoso è ormai forte soprattutto nelle città. Resta il fatto che a tutti è capitato di commuoversi guardando un cielo stellato in diverse occasioni (fortunate) della vita.

Per cogliere a fondo quel senso di stupore può essere interessante andare a leggere il libro I Greci, i Romani … e le stelle di Simone Beta (Carocci Editore), che accoglie un’antologia di testi con riferimenti alle stelle nella letteratura classica accompagnati da un breve, ma esauriente commento.

Ecco, allora, Ulisse, che ha appena lasciato, su una solida zattera, Calipso e l’isola di Ogigia avendo scelto di tornare nella sua Itaca: «Seduto al timone, guidava la zattera con abilità. / E il sonno non gli cadeva sugli occhi / mentre guardava le costellazioni: le Pleiadi, Boote / che tramonta tardi, l’Orsa (chiamata anche Carro) / che guarda Orione, girando su sé stessa» (Omero, Odissea, 5, 271-275).

O, la descrizione di un altro viaggio per mare nelle Argonautiche di Apollonio Rodio: «Poi la notte portò l’oscurità sopra la terra: / i marinai, dalle navi, sul mare, guardavano / l’Orsa e le stelle di Orione» (3, 744-746).
Busto di Omero in marmo (II secolo d.C.), copia romana di un originale ellenistico (II secolo a.C.), esposto nella mostra «Troia, mito e realtà», Londra, British Museum, 2019-20
Il racconto di una notte di navigazione si trova anche nell’Eneide di Virgilio, con Palinuro che esamina le costellazioni: «Arturo, le Iadi piovose, i Carri gemelli, / Orione con le sue armi d’oro. Quando ha veduto / la posizione di tutte le stelle nel cielo sereno, / colloca a poppa un segnale luminoso. / E noi leviamo il campo, pronti a superare lo stretto / aprendo le ali alle vele» (3, 520-525).

I tre esempi suggeriscono l’importanza delle stelle per chi viaggiava per mare e di notte: la loro conoscenza approfondita consentiva di non perdere la rotta.
Sugli astronomi si ironizzava anche: in proposito, si può richiamare un passo del Teeteto di Platone, dove Socrate racconta un episodio, che avrebbe riguardato Talete: lo scienziato, intento a osservare le stelle, sarebbe caduto dentro un pozzo. La scena sarebbe stata vista da una giovane schiava tracia, la quale, divertita, avrebbe commentato: «il desiderio di conoscere il cielo era così forte da fargli dimenticare di osservare le cose della terra, davanti ai suoi piedi». Talete, che Callimaco, nel primo dei suoi Giambi, ricorda come colui che aveva misurato le stelle del Piccolo Carro, diventa il prototipo dell’uomo di scienza distratto.
Atlante Farnese (II secolo d.C.), Napoli, Museo Archeologico Nazionale, Salone della Meridiana. Foto Mann/Napoli
Scienziati di valore certamente non mancarono come, ad esempio, Claudio Tolomeo, vissuto ad Alessandria di Egitto nel II secolo d.C., il cui sistema geocentrico, che poneva la Terra al centro dell’universo, è stato ritenuto valido per un arco di tempo molto lungo, sino alla rivoluzione di Niccolò Copernico.
C’è, nella letteratura antica, anche spazio per deplorare il fatto che osservare il cielo fosse divenuta una stanca abitudine. Si possono richiamare alcuni versi del De rerum natura di Lucrezio, dove si denuncia l’incapacità di stupirsi: «Ma ormai non c’è nessuno che si degni / di alzare gli occhi al cielo, come fosse già stanco / sazio di contemplare i suoi spazi luminosi» (2, 1045-1047).

C’è infine da segnalare come, nel mondo greco e romano, astronomia e astrologia non fossero distinte e nella sovrapposizione credeva lo stesso Claudio Tolomeo: gli astri e i loro movimenti sarebbero stati in grado di condizionare il destino e il carattere degli individui. I nostri oroscopi derivano in fondo ancora da quelle tesi, che già nell’antichità avevano sollevato voci critiche: Marco Tullio Cicerone nel De divinatione (2, 87-93), o Sant’Agostino nel De doctrina christiana (2, 21-22), per limitarci a due autori ben noti.

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