Ritratto di Grazia Varisco, Foto di Thomas Libis, Palazzo Reale, Milano, 2022, Courtesy Archivio Varisco

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Ritratto di Grazia Varisco, Foto di Thomas Libis, Palazzo Reale, Milano, 2022, Courtesy Archivio Varisco

Grazia Varisco tra progetti presenti e futuri

Alla Biennale di Venezia e in Palazzo Reale a Milano si racconta la vicenda di una protagonista indiscussa dell’arte italiana

Valeria Tassinari

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Grazia Varisco (Milano, 1937) è una delle personalità artistiche di spicco della scena italiana da oltre cinquant’anni. Ancora in piena attività, legata a una visione dell’arte che, dagli esordi nel contesto dell’Arte cinetica e programmata a oggi, è rimasta coerentemente orientata alla ricerca formale più rigorosa. Oltre a essere tra le artiste invitate da Cecilia Alemani alla LIX Biennale di Venezia nella capsula/sezione «Tecnologie dell’incanto» della mostra «Il latte dei sogni», ha numerosi progetti in corso, tra i quali una grande antologica che, tra sospensioni per la pandemia e riprogrammazioni, la sta impegnando da due anni. Una mostra che l’artista stessa ha pensato scegliendo accuratamente opere di ogni periodo della sua produzione fino ad oggi, con l’intento di raccontarsi pienamente, nella città dove è nata e dove lavora, nel grande studio che è anche sede dell’Archivio Varisco.

Così, mentre alla Biennale la sua presenza si concentra su una selezione di opere cinetiche, tra le più iconiche degli anni Sessanta, la mostra «Grazia Varisco - Percorsi contemporanei 1957-2022», in corso nel Palazzo Reale di Milano fino al 16 settembre e a cura di Marco Meneguzzo, vuole essere il racconto di un percorso di ricerca ben più articolato e complesso. Una vicenda intensa e, come dice lei, «fortunata» per incontri e occasioni; partendo dalla formazione negli anni Cinquanta, iniziata al liceo artistico e continuata all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove la condivisione di idee con Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo e Gabriele De Vecchi, suoi compagni di studi, la porta a fondare con loro il Gruppo T, una delle punte della ricerca d’avanguardia in Italia nei primissimi anni Sessanta.

Da allora si è distinta per un’attività incessante, alla quale per un periodo ha affiancato anche l’esperienza dell’insegnamento di Teoria della percezione in Accademia. In ogni ambito in cui si trova a operare, al centro della sua poetica è una visione limpida e coerente del rapporto tra forma e pensiero che, nonostante la sua reticenza alle interviste, siamo riusciti a farci raccontare. Ecco come esordisce: «Mi chiede un’intervista... ai miei quasi 85 anni, con calo di energie fisiche e mentali, dal Covid in poi le richieste si sono moltiplicate. Ma che cosa è l’“intervista”, così frequente nella comunicazione attuale, proposta a un’artista di esperienze visive?

Da sempre sono restia a parlare del lavoro di una vita in un concentrato di punti di domanda incerti, messi alla prova da risposte scontate o approssimative. L’intervista rischia di essere interprete di aneddoti e modi di dire che alterano il procedimento di dati storici importanti. In genere mi difendo da queste richieste proponendo incontri più raccolti, per sostenere il mio interesse a trasmettere a giovani e agli adulti/giovani di testa, l’entusiasmo che ancora insiste a mettere in forma il pensiero
».

La grande attenzione su di lei in questo periodo si collega anche a due occasioni espositive di grande visibilità, ovvero la sua presenza alla Biennale di Venezia e la sua antologica a Milano. Come vive queste due momenti? Quali emozioni le danno e che cosa le consentono di mettere in luce del suo lavoro?
Con l’invito di Cecilia Alemani, che naturalmente ho apprezzato, sono presente alla Biennale per la terza volta. La prima nel 1964, poi nel 1986 e infine nel 2022: tre edizioni in cinquantotto anni, in cui mi trovo a esporre sempre le stesse opere, gli «Schemi luminosi» cinetici del 1962, e quando rivedo il mio curriculum penso che, in fondo alle note biografiche, il convenzionale «vive e lavora a Milano» esclude la dimensione del Tempo, che invece era l’aspetto fondamentale della ricerca messa in opera proprio nell’attività del Gruppo T. Nella Biennale del 2022, solennemente, le lancette dell’orologio sono inchiodate sul cinetico/fisso. Ma nelle esperienze del periodo cinetico il movimento è la misura del Tempo nel suo accadere e trascorrere... un prima, un dopo con attenzione particolare al «durante».

In questa Biennale io e le altre artiste italiane degli anni Sessanta invitate nella mia stessa sezione siamo proposte come esempio di esperienze differenti, rispetto al contingente globalizzato, da cui per la verità mi sento estranea, anche se mi affascina. Il nostro angolo è il paradigma di un pensiero che diventa forma, sospensione e attesa, sottraendosi così al processo di trasformazione. Ma in arte, mentre il tempo scorre, il pensiero, libero, insegue la forma e si adegua alla trasformazione continua. La mostra a Palazzo Reale mi ha provato per tre rinvii dovuti al lockdown per il Covid-19, con spostamenti di spazi che hanno condizionato il progetto di allestimento. Ma l’arte non si arrende, cerca soluzioni convincenti... si fa carico di tensioni a sostenere il progetto fino alla conclusione. A scadenza inesorabile, accumula scatole e imballi a proteggere il mio pensiero che parla di Tempo, di Caso, di Sé, di Leggerezza, di Vuoto... Un Vuoto generoso, che accoglie e stimola, un vuoto importante, un «Vuoto a rendere».

Il progetto di questa antologica l’ha portata a rileggere tutto il suo lavoro. Come si è rivissuta? Come ha operato le scelte?
Uno sguardo retrospettivo al mio lavoro è alternativamente compiaciuto/benevolo e giudice/severo. Nel tracciato del filo rosso che si dipana nel mio percorso e lega tutte le esperienze scopro un’ostinazione che castiga il risultato, che vuole essere esatto ma non ci riesce. Il mio temperamento geloso del mio pensiero non sa delegare e si adatta come può, anche rinunciando al meglio. Non riesco a indicare un lavoro come preferito; se solo penso a uno, sento che tutti gli altri reclamano: «E io? E io?»

Pensando ai suoi esordi nell’avanguardia, sembra strano pensare che il Gruppo T sia nato all’Accademia di Brera, quando lei e gli altri componenti frequentavate il corso di affresco di Achille Funi. Com’è potuto nascere un movimento di ricerca così internazionale in un contesto formativo del tutto tradizionale?
Nella seconda metà degli anni Cinquanta con il Gruppo T frequentavo il corso di Funi, ma non certo per interesse alla disciplina della decorazione, che era anacronistica anche allora. L’atmosfera in Accademia tra studenti e docenti era incerta, e ancora le composizioni critiche erano divise con «astratti furori» fra Astrazione e Figurazione. Caratterizzavano il corso le tecniche dell’affresco e dell’encausto, la preparazione della parete era pensata durante le pause della posa della modella, quando ci riunivamo attorno alla cattedra a respirare mitologia. Era un’esperienza carica di preparazione metodica, nella fase esecutiva l’affresco richiede al tempo di essere scandito in «giornate». Pausa, durata, a fresco, ossia finché l’intonaco con calce viva riesce a ricevere, ad assorbire il colore umido dal pennello che scorre deciso.

Erano «giornate» per noi anche insolite e divertenti, ricche di sorpresa e di prove pazienti, dai cartoni preparatori ai fogli semitrasparenti e puntinati per lo spolvero, sul contorno delle figure da riportare nella composizione della scena immaginata. Una disciplina che al dunque ci ha stimolato anche a fare tutt’altro. Infatti fuori dall’Accademia abbiamo presto avuto occasioni importanti. Questo grazie all’incontro con Guido Ballo, anch’egli nostro professore, e poi con Giorgio Soavi, Bruno Munari e Umberto Eco, che aveva presentato la storica mostra sull’Arte programmata nel Negozio Olivetti della galleria Vittorio Emanuele di Milano, alla quale sono seguite mostre itineranti in Europa e negli Stati Uniti.

Nel Gruppo T la sua era l’unica presenza femminile, in tempi in cui lo stile di vita non era lo stesso per ragazzi e ragazze. Lei dice spesso che la differenza tra un artista uomo e un’artista donna sta in un semplice apostrofo. Le sembra ancora importante ragionare sull’identità di genere? Si è sentita condizionata dall’essere donna quando ha esordito? E oggi ha ancora senso parlarne?
Non è solo un «semplice apostrofo», tuttora quel piccolo segno in alto che quasi scappa non è acqua passata; neppure la definizione al femminile «artista» e non «artisto» risolve la contraddizione. Ho sempre detto e sostenuto che il generale condizionamento in atto nella società, allora e ancora, non mi è pesato e non mi ha demotivato. Mi sono trovata a mettermi in gioco nel confronto alla pari, senza mugugni.

Quale rapporto ha sviluppato nel tempo con la critica?
Agli inizi la critica in generale era perplessa, o scherzosa/negativa. Per fortuna ho incontrato persone per me importanti, a cominciare apppunto da Guido Ballo, che ci ha aperto la testa. Poi la critica seria e interessata all’attualità era presente; in attesa, attenta, come per esempio sono stati Gillo Dorfles, Giulio Carlo Argan, Francesco Vincitorio, Filiberto Menna, Maurizio Calvesi... Nella mia vicenda ho goduto di attenzioni dalla critica e, ancora più importante, della stima di amici artisti. L’elenco dell’antologia critica dei miei cataloghi lo conferma.

Quale rapporto ha oggi con il mercato?
Non mi interessa più di tanto, il riconoscimento c’è, ma non mi occupo dell’aspetto commerciale. Il mercato non è sempre così attento nelle sue versatili evoluzioni, io non me ne intendo e capisco poco dei meccanismi che muove. Il mio mercato è ricco di frutta e verdura...

Lavora da sempre sull’idea del Tempo, e recentemente ha realizzato un’opera monumentale. Le interessa l’idea del monumento?
«Grande parentesi», l’opera inaugurata nel giugno 2021, non è un monumento, ma una riflessione, un vuoto, un silenzio. Una vera occasione, tristemente contemporanea, nata dall’invito a partecipare al Concorso in ricordo delle vittime del Covid-19 del Comune di Rho, promosso dalla Permanente di Milano. In quel periodo ero tesa per un’anemia conclamata di cui non avevo avvertito i sintomi. La stanchezza non mi aiutava ma l’incoraggiamento degli amici mi ha convinto a provare. Sugli scaffali dello studio da anni tengo piccole sculture e modellini pensati per occasioni mancate, e un giorno ho riguardato con commozione un oggetto che mi chiamava, perché si proponeva come interprete dello smarrimento che in questo lungo e triste periodo accomuna tutti, in una «Grande parentesi» di vuoto.

Dopo questa parentesi pensa al futuro del suo lavoro?
Al momento non penso, desidero solo Pausa che spesso, come mi è già capitato, rende come il «vuoto a rendere».

Ritratto di Grazia Varisco, Foto di Thomas Libis, Palazzo Reale, Milano, 2022, Courtesy Archivio Varisco

Valeria Tassinari, 16 agosto 2022 | © Riproduzione riservata

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