Fotografia e intelligenza artificiale: un dilemma contemporaneo

Gli ulteriori e attuali processi di produzione legati alle intelligenze artificiali possono essere strumentali alla creazione di una nuova iconografia?

Uno still dal video «Watching the sea» (2019) di Marco Cadioli
Marcella Manni |

La storia della fotografia insegna che le tecnologie sono strumenti e pretesti per rimettere in discussione la definizione stessa di fotografia. Oggi, lo sviluppo tecnologico più rilevante collegato alla sfera di produzione delle immagini è quello dell’intelligenza artificiale, a tutti gli effetti una disciplina informatica. Il sistema di funzioni e di elaborazioni che si intende come AI (acronimo inglese per intelligenza artificiale) è ancora in corso di perfezionamento, con un fattore cruciale di sviluppo relativo alla quantità di dati che questi sistemi riescono a elaborare, la velocità con la quale lo fanno e la natura delle operazioni cognitive e virtuali che sono in grado di gestire. L’impatto di questo sviluppo tecnologico nel contesto della fotografia e delle arti visive lascia spazio a molte strade da percorrere, sia sul fronte della produzione che su quello della fruizione.

Provando a circoscrivere il campo di indagine, nei recenti sviluppi dei processi informatici, sembra sostanziale la disponibilità di software in open source, che consentono, a partire da un testo descrittivo, non solo di recuperare immagini identificate in base alla corrispondenza con la stringa di testo, ma anche di aggiungere elementi a partire da un’immagine di base modificandola. È possibile, ad esempio, non solo rintracciare la riproduzione della «Ragazza col turbante» di Vermeer, ma anche modificarla nei dettagli, o cambiarne contrasto e cromia attraverso semplici e intuitivi comandi del software. Tutto questo con un gesto relativamente semplice: digitare una stringa di testo.

Le possibilità che si aprono a chiunque abbia interesse a lavorare con e di immagini (e un minimo di competenze tecnico-informatiche) con questa opzione di sviluppo tecnologico, impatta in modo significativo sulla quantità della produzione. Tuttavia, va ricordato che l’arte generata da una intelligenza artificiale non è una recentissima novità  (basta citare, ad esempio, AIartists.org che raccoglie e presenta opere e ricerche di una comunità di artisti che esplorano e lavorano impiegando questa applicazione tecnologica già dal 2021).

È invece dello scorso settembre la notizia di un’opera «AI generated» che si è aggiudicata un premio all’interno di una fiera d’arte negli Stati Uniti. Jason M. Allen, questo il nome dell’autore, ha vinto il premio per artista digitale emergente con l’opera «Théatre d’Opéra Spatial», un’immagine manipolata digitalmente attraverso il software di intelligenza artificiale Midjourney, (l’autore ha usato «Jason M.Allen via Midjourney» come «autore» appunto). La notizia rilevante circolata e rimbalzata non è però in realtà relativa alla «generazione» dell’opera, cioè come è stata creata, ma più al dibattito che ha innescato sull’autorialità, fino al punto che è stata messa in discussione (non dalla giuria del premio, che lo ha confermato) la legittimità di partecipazione stessa al premio in conseguenza al dichiarato impiego di un AI nella produzione.

Ma è davvero la riproposizione di questa domanda fondante,  quella sulla creazione e sull’autore, l’aspetto interessante del dibattito aperto dallo sviluppo tecnologico, nel contesto delle arti visive?
Dalla serie «urtümliches Bild» (2020) di Silvia Bigi
Tre artisti a confronto
Uscendo dalla cronaca (e da un facile sensazionalismo sull’ipotesi della morte dell’arte), per comprendere tendenze e approcci nel contesto dell’arte contemporanea è sempre importante analizzare la pratica degli artisti e metterli a confronto, nelle similitudini e nelle differenze. Con questo criterio, a tratti anagrafico (che consente una lettura delle pratiche in un arco temporale più ampio) a tratti geografico (artisti che si sono formati e lavorano in luoghi diversi e quindi influenzati da culture diverse), per altri aspetti di scelta di campo, sia concettuale che tecnica, si può uscire da un dibattito sul «chi» per entrare nel vivo di «cosa».

L’artista americana Tamiko Thiel ha una formazione all’MIT ed è stata lead product designer del supercomputer AI Connection Machine CM1/CM2 (1986-1987). Dopo avere lavorato per diversi anni nello sviluppo di prodotti, ha lasciato la ricerca accademica per dedicarsi alla pratica artistica. L’approccio di Thiel si nutre della consapevolezza che ogni volta in cui ci si accorge della necessità di cambiare il modo di fare le cose e di muoversi in questa direzione, automaticamente si genera una nuova sfera di problemi nel contesto stesso nel quale si interviene.

Problemi che, nel suo caso, si concentrano sulla differenza tra intelligenza e coscienza, attraverso la realizzazione di opere che, oltre evidenziare che questi sistemi funzionano (perché realmente sono testati, sviluppati e impiegati con il preciso scopo di funzionare), ci mostrano che non abbiamo, come utilizzatori, la consapevolezza di come realmente funzionano. Il suo lavoro «Lend me your face» (2020), nasce da una commissione della Photographers’ Gallery di Londra. Tecnicamente parlando, impiega un framework di una rete neurale deepfake e open source per riprodurre il volto di persone comuni secondo i movimenti facciali e l’espressività di noti personaggi pubblici. Il ritratto che si genera trova la sua compiutezza con il livello di coinvolgimento che le persone provano nel vedere la propria immagine riprodotta su grandi schermi e la velocità con la quale questa informazione personale (la riproduzione del volto) può essere manipolata.

L’artista italiana Silvia Bigi nello stesso anno, il 2020, realizza la serie «urtümliches Bild»: utilizzando un algoritmo di machine learning che traduce parti testuali in immagini (come appunto il già citato Midjourney), offrendo come spunto generativo la descrizione di sogni notturni, immagini residuali e latenti per definizione. Il risultato visuale che si ottiene è fedele alla grammatica della descrizione, cioè una sorta di parafrasi: privo di riferimenti prospettici, con azzerata possibilità di riconoscimento di luoghi e/o oggetti, certo più vicino a un’idea di astrazione, che a quella canonica di riproduzione.

L’artista Marco Cadioli coniuga la formazione in cibernetica con l’interesse per l’arte digitale, investigando dal 2003 gli sviluppi delle tecnologie e delle immagini digitalmente prodotte e visualizzate, un approccio che lo ha portato a concentrarsi sui data set e i processi di machine learning delle AI. Il suo lavoro video «Watching the sea» (2019), realizzato con la fotocamera di uno smartphone, è dedicato a un paesaggio canonico della rappresentazione romantica: il mare.

Osservatori del movimento delle onde e increspature dell’acqua sono la coppia formata dall’artista e la «macchina», in questo caso un sistema di visione artificiale. L’occhio umano e quello artificiale sembrano cercare, di fronte alla stessa scena, soggetti diverse e concentrarsi su cose diverse. Obiettivo è il confluire dei due sguardi, quello dell’artista-producer registrato in bianco e nero, e dell’AI: al movimento delle onde, le increspature dell’acqua si sovrappongono segni astratti e geometrici, una serie di punti di interesse, linee d’orizzonte e vettori caratteristici dei sistemi di visione artificiale allenati a estrarre dati singoli.
«Lend me your face» (2020) di Tamiko Thiel installata alla Haus der Kunst di Monaco di Baviera
Uno step evolutivo?
Questi tre approcci sono accomunati dall’impiego di AI ma profondamente diversi negli esiti formali: producono immagini di archivio manipolate («Lend me Your Face»), o generate a partire da immagini mentali mediate dalla scrittura («urtümliches Bild»), oppure danno vita a un doppio livello di visione e di rappresentazione («Watching the sea») nell’immagine in movimento… Ebbene, che rapporto ha tutto ciò con la fotografia?

Se si prende in considerazione l’elemento fondante della fotografia, cioè la luce, davvero ben poco. Se invece si considera quanto di fotografico c’è che caratterizza queste immagini, allora si possono aprire discorsi che spaziano dal fotorealismo, fino all’iperrealismo che tende all’astrattismo. In poche parole, questioni che riguardano il trattamento e l’interpretazione dell’elemento descrittivo nell’immagine. Si ripropongono cioè questioni e domande che già il passaggio tecnologico della fotografia digitale (dalle macchine fotografiche fino agli smartphone) aveva prodotto.

I sistemi di AI, e tutto il comparto collegato, dai data set (corrispettivi dei libri di testo) ai sistemi di machine learning (paragonabile a un docente) producono immagini, questo è il dato innegabile. È plausibile pensare che parte delle fotografie ad oggi prodotte, in ambito artistico così come professionale gli still life di un prodotto commerciale potranno diventare inutili in un futuro prossimo, o tecnologicamente superati quantomeno. Questo perché i software probabilmente saranno in grado di farlo in modo perfettamente adeguato, senza bisogno di un fotografo e di un set. Ma questo step ulteriore di domanda sull’autorialità, che si può prefigurare come successivo a quello che si pone oggi, sembra più relativo alla suggestione del robot o dell’avatar che la parola stessa, Intelligenza Artificiale, si porta dietro. Cioè all’idea che si stia sviluppando e ci si stia dirigendo verso la creazione di macchine che faranno fare un ulteriore step evolutivo all’essere umano.

La domanda che invece può essere più interessante, nelle risposte e nell’intento di stimolare un dibattitto è: gli ulteriori e attuali processi di produzione legati alle intelligenze artificiali possono essere strumentali alla creazione di una nuova iconografia? Per rispondere a questo è fondamentale mettere a confronto, appunto, opere e le pratiche degli artisti. Come metterle a confronto, che siano mostre, rassegne, festival, premi o attività di studio e ricerca, cioè tradizionali luoghi e contesti dell’arte e della fotografia è in un certo senso marginale. Importante è che ci siano. Già questo ci offre possibili chiavi di lettura della varietà degli approcci e delle tendenze, mettendo alla prova se e come si stia generando, non tanto una nuova etichetta d’autore, ma il contesto e i tempi per una nuova iconografia.

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